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Rigorosamente Don Giovanni

Decisamente buono, seppur tradizionale, l'allestimento dell'opera di Mozart co-prodotto dal Santa Chiara di Trento e presentato al Teatro Sociale. Intervista con il regista Mario Martone.

La rilettura del Don Giovanni di Mario Martone ruota soprattutto intorno ai protagonisti. Il seduttore domina, ma tutti gli interpreti sono validissimi, e disegnano con naturalezza il carattere originale del proprio personaggio. Sia Leporello (Andrea Concetti) che Donna Elvira (Raffaella Angeletti) si affrancano dal ruolo di "maschere", i duetti di Masetto (Andrea Patucelli) e Zerlina sono fra le parti più riuscite dell’allestimento. I cantanti si sono impegnati al massimo per rendere tutta la vitalità dell’opera. Renato Ulivieri (Don Giovanni) canta dimenando il bacino e portando tra le braccia una ragazza del coro; e la bravissima Rosanna Savoia (Zerlina) non si nega nessuna posizione difficile per il canto; anche riversa fra le braccia di Masetto, la vivace soprano mantiene un tono costante ed espressivo. Tutti gli interpreti del resto sono stati costretti a delle acrobazie. L’elemento portante della scenografia, uno spalto con vari scalini e il palco allungato fino a coprire l’orchestra, viene sfruttato in toto. I cantanti si sono mossi benissimo sui diversi piani interpretando con efficace mimica.

Il golfo mistico interrato ha giovato alla resa totale del suono che, seppure con i soliti difetti, arrivava però alle orecchie degli spettatori molto più amalgamato di quanto non sia mai successo; tanto che quasi mai si è imposto il suono dell’orchestra sulle voci dei cantanti, o viceversa. I costumi sono curati e le trovate di regia (lo scandaloso nudo che poi non ha nulla di volgare, e il famoso finale che presenta sempre delle difficoltà) sono ben gestite. Il difetto più grande di questa produzione è la scialba e inamovibile scenografia. Gli arredi di scena erano ridotti all’osso. I cantanti si sono dovuti inventare lo spazio riempiendolo del loro corpo e dei loro gesti. Per tutta l’opera il palco è stato vuoto. Solo alcune panche da chiesa a fornire appoggio e ostacolo alla vista, lo sfondo è chiuso da un emiciclo di gradinate. Su questa scelta abbiamo interrogato il regista Mario Martone.

Qual è la funzione della contro-platea che domina la scenografia?

"Ognuno può immaginare la tribuna come vuole, di volta in volta si trasforma in qualcosa di diverso. C’è il teatro nel teatro, il senso dell’arena spagnola (il mito di Don Giovanni nasce in Spagna), l’Inquisizione e il tribunale. Tutto il Seicento oscuro da cui proviene Don Giovanni. Ma la funzione primaria è di esporre tutti i personaggi all’inizio, i contadini, i servi, anche il commendatore; e poi, nel finale, viene mostrata vuota e con un grande buco centrale, che segna il ripristino dell’ordine ma è anche un vuoto di vitalità, la fine di Don Giovanni".

Una scenografia povera con un valore concettuale?

"Il teatro non ha bisogno di scenografie. In particolare il Don Giovanni è un’opera dalla trama piuttosto disarticolata, con dei salti temporali, l’elemento unificatore è la musica. Si passa da un ambiente all’altro in continuazione. Assecondare tutti i cambi di scena porta ad uno spettacolo farraginoso. Invece una scena fissa, come nel Così fan tutte, dove c’era la stessa essenzialità - un piano inclinato e due letti - rende tutto più agile. Il fatto che gli attori debbano creare con il corpo il loro spazio è semplicemente il teatro.Il teatro di Mozart era un teatro senza scenografia. Le parole dei cantanti, le parole del poeta e la recitazione sono lo spettacolo. Questo è anche il teatro di Shakespeare, infatti il richiamo più immediato di questo allestimento di Don Giovanni è al teatro elisabettiano: scarno, semplice, vicino agli spettatori e senza cambi di scena".

Un teatro diagonale?

"I bracci in pendenza avvolgono l’orchestra e consentono di avvicinare il pubblico e rendere più intima l’opera. Queste sono opere piccole che vanno viste e ascoltate in una dimensione intima, bisogna dimenticare la Grande Opéra, le grandi orchestre, i cori di stile ottocentesco; queste sono opere piccole da ascoltare in una dimensione raccolta. L’avvicinamento permette anche di favorire la comprensione dei concertati, quando ogni cantante porta avanti il discorso del proprio personaggio separatamente, senza andare a discapito della unione musicale".

Il cinematografico che entra nel teatrale... Quanto si differenzia il lavoro in questi due ambiti della regia?

"Una cosa serve all’altra, il lavoro in teatro mi aiuta quando faccio un film. Adesso sto finendo il quarto, L’odore del sangue, un testo di Parise che avevo letto qualche anno fa e mi aveva colpito. I diritti li aveva opzionati Fanny Ardant... In maniera fortuita ci siamo così ritrovati a lavorare a questo progetto. I film hanno un processo di elaborazione molto più lungo di uno spettacolo teatrale. Sono qualcosa che mi riconduce al personale, mentre la regia teatrale è un’attività più estroversa. Il cinema ha di bello che ha queste tre fasi: un’iniziale elaborazione in grande intimità, quando si scrive il film; poi c’è questo momento di incontro con la vita, con gli attori, i tecnici, tutto quello che non puoi prevedere, dove l’idea viene modificata. Poi si torna ad una dimensione più personale nel montaggio, al quale io lavoro con Jacopo Quadri, con cui collaboro fin dal primo film".

Prescindendo dalle possibilità reali, quale film o spettacolo teatrale le piacerebbe realizzare?

"Avendo una macchina del tempo mi piacerebbe lavorare con Mastroianni, un attore meraviglioso che adoravo. Soprattutto quello che mi attrae è l’idea di tornare al periodo dei primi anni Cinquanta, un’epoca molto viva, con grandi ideali e aspettative".