Venezia 60
Non ha vinto il film che doveva vincere, "Buongiorno, notte" di Marco Bellocchio. Ha vinto "Il ritorno", film russo che, del concorso, era fra le opere migliori e che ha fatto piangere il giurato Stefano Accorsi. Anche se Andrej Zvjagintsev, il regista, è bravo e pieno di passione, ci viene da dire, citando David Foster Wallace, che ha fatto un film da "guarda, mamma, senza mani": vuole fare il Tarkovskij, parla il linguaggio della mitologia, propone un viaggio a ritroso nell’anima. Il Leone d’Oro è forse un incoraggiamento eccessivamente lusinghiero per un regista che, al suo primo film, è già troppo innamorato delle sue inquadrature.
L’hanno detto tutti, alcuni motivati da un nazionalismo per niente necessario: in concorso c’era un film più bello, quello di Marco Bellocchio. Un film alto, teso, riuscito, che scavalca la pur epocale contingenza di un fatto storico per lasciar voce al linguaggio del sogno, alla consueta presenza della psicanalisi, qui finalmente controllata dal regista; un film efficace nel cercare tracce di spiegazione e di interpretazione di un "mistero", una concatenazione "impossibile" di eventi e situazioni.
L’altro concorso, "Controcorrente" - che il direttore De Hadeln ha voluto porre, anche dal punto di vista della programmazione, sullo stesso piano del concorso maggiore -, ha visto premiato il film sicuramente più bello, "Vodka Lemon", girato in Armenia da un regista curdo. Lo spunto principale del film, una dramma raccontato sul filo della fantasia e dell’ironia, non viene dalla geopolitica, ma dal tema della sopravvivenza in un panorama innevato dove tutto sembra ostile o assente: sopravvivere, in quel bianco che annulla tutto, riempie già le giornate. E’ per premiare film come questo che le competizioni hanno ancora un senso.
Ma chi ha pazienza sa che le scelte del palmares si sgonfiano a qualche settimana di distanza dalla fine dei festival. Saranno poi altri tempi, altre giurie, a decidere se un film era importante oppure no. Premi a parte, il vero motivo di interesse di mostre come Venezia è il solito, collaudato carotaggio sullo stato di salute del cinema e, per estensione, delle cose del mondo. Si fa un giro del globo per immagini, si vede cosa tenere, cosa scartare, quali tematiche emergono, quali cinematografie stanno bene e quali stanno male.
Dal Medio Oriente e dal mondo arabo (non solo l’Iran) giungono - nel disastro generale - diverse buone pellicole. "Alila", il film di Amos Gitai in concorso, è girato fra Tel-Aviv e Jaffa. Ci parla delle difficoltà del vivere e del raccontare in quel territorio troppo stretto, rappresentato da una casa intasata di monolocali. Il film ha dentro troppe cose ed eccede in simbolismi, ma la narrazione di Gitai è fluida, funziona per carrellate orizzontali che lasciano che questa metaforica realtà si racconti da sola.
Dagli USA, la cosa migliore arrivata al Lido è il film dei fratelli Coen, che hanno realizzato una di quelle pellicole che mettono d’accordo critica e pubblico, garantendo qualità e leggerezza nella visione. "Intolerable Cruelty" è una commedia brillante sul tema dei divorzi miliardari e delle clausole pre-matrimoniali, retta da una scrittura - letteraria e cinematografica - che ha oggi pochi esponenti al livello di Joel e Ethan Coen.
Tra i fuori concorso, comunque, imperversava Bernardo Bertolucci, che ha fatto discutere con "The dreamers", storia di un trittico amoroso, a Parigi, nel 1968. Il film, ovviamente di confezione perfetta, risulta essere una via di mezzo tra "Ultimo tango a Parigi" e il debolissimo "Io ballo da sola". La storia di questa perdita della verginità - fisica, cinematografica e politica - lascia purtroppo tutti i discorsi in superficie.
Altri italiani: "Il ritorno di Cagliostro" fa divertire molto. Il film sconta però, nella seconda parte, la presenza della star americana Robert Englund (il Freddy Krueger di "Nightmare", il buono dei "Visitors"), a cui Ciprì e Maresco hanno voluto/dovuto trovare spazio anche a costo di sbilanciare i tempi e la progressione della storia. "Il miracolo" di Edoardo Winspeare, che era in concorso, è un buon film medio, semplice, come dovrebbero essercene di più. Il sardo Salvatore Mereu, invece, ha vinto il premio della Settimana della Critica con "Ballo a tre passi", film a quattro episodi, uno per ogni stagione dell’anno. Se la primavera è bella e poetica - soprattutto, a dire la verità, per chi non ricorda il finale dei "Quattrocento colpi" -, l’estate racconta questa storia: un pastore sardo porta nell’entroterra una turista che lo ha rimorchiato in spiaggia. Fanno l’amore, però al pastore piace solo alla pecorina. Poi la turista se ne va e si schianta con un bimotore. Mah…