Fulvio Reuter
Gli anni eroici del grande fotografo veneto in mostra a Verona fino al 18 maggio
Pensare e fotografare. Non so se è corretta la successione dei due verbi. Forse viene prima la fotografia, che raccoglie dati, documenta, mette in riga spazio e tempo, e già si affaccia il pensiero che sceglie, organizza quelle "sperienze" che diventano sempre più "sensate", per usare termini leonardeschi. E proprio a certe brumose atmosfere leonardesche, con le dovute cautele ovviamente, ho associato quel "Postino al Beguinage", l’opera che mi ha accolto, intanto che Fulvio Roiter parlava parlava parlava davanti ad una folta platea in occasione del vernissage di una sua mostra ospitata nell’area romana e medievale degli Scavi Scaligeri al centro di Verona.
Cogliendo brandelli di un discorso intorno alla storia della fotografia, Roiter affermava che in questi giorni di perfezione tecnica della macchina quello che manca è l’occhio, e di conseguenza mancano le fotografie, perché per lui pensare è fotografare e viceversa. La verità del momento ti ricollega alla storia dell’uomo, coglie il presente e rimane per sempre: questo è il destino di una foto di razza che, senza retorica, sa raccontare forse meglio di un libro di storia. Il fotografo presenta ad una ad una le sue straordinarie foto e aggiunge aneddoti interessanti intorno ai suoi giovanissimi anni in giro per il mondo: un mondo colto in bianco e nero, il fascino del nero profondo e della rigorosa geometria che scava nei meccanismi del reale più di un sociologo (le tre piccole greggi andaluse che avanzano con la regolarità dei segni bianchi delle pecore e dei neri dei pastori o la grafia minimalista delle croci in ferro e dei rari sterpi di contro al bianco accecante di un piccolo cimitero umbro coperto dalla neve in perfetta consonanza con la "sora morte corporale" di francescana memoria. Sempre sul bianco di una parete si stagliano con nettezza e suprema dignità le attese di una madre (si noti quel gesto quasi antonelliano di ritrosia) e la concentrazione di due sorelle su una lettera giunta a Lipari da terre lontane o i giochi dei bimbi sotto lo sguardo disattento di una nonna nella Puglia degli anni ’60 (manca la generazione di mezzo, costretta ad emigrare in Germania).
Un paesaggio a piccoli dossi alle pendici dell’Etna è segnato dall’assenza: manca l’uomo, ma tutti i particolari di questa fotografia memorabile ne rivelano la presenza, i gesti di sempre, la legna accatastata, le vigne come radici di ginseng potate con cura. E’ facile pensare alla fatica che sfianca (le vigne così basse tese a cogliere il calore della terra fino all’ultimo), ma "è nella sublimazione del linguaggio, nella perfezione di un esasperato rigore, che la forma diventa rivelazione" (Paolo Morello). Quando coglie la verità del momento la fotografia diventa magico elemento di sospensione, levitano le stesse figure, come nel caso degli scugnizzi napoletani che corrono lieti dietro un carretto per i vicoli della loro città o dei bambini ivoriani che si apprestano con lo stesso sorriso a dormire sulla nuda terra.
Ai viaggi in Mosquito, in bicicletta, ai viaggi degli anni eroici sconosciuti ai più si succedettero le immagini a colori delle gondoete e mascarete veneziane che hanno impestato e inzuccherato con cataloghi voluminosi e costosi e cartoline le librerie e i tabaccai del pianeta. Onore a quegli anni, al diavolo il resto; bene fecero i curatori a fermarsi agli anni Settanta.