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Questione femminile e legge elettorale

Le donne dirigenti sono sempre mosche bianche. I motivi, e i tentativi - falliti - per porvi rimedio a livello istituzionale.

La disoccupazione femminile è, un po’ ovunque in Italia, all’incirca doppia rispetto a quella maschile. I salari delle donne sono mediamente più bassi. Le donne imprenditrici sono una rarità e altrettanto si può dire per i posti di vertice nella pubblica amministrazione o nelle grandi aziende. Più in generale, pochissime donne ricoprono ruoli di primo piano nella società, nell’economia, nella politica. E se in passato la discriminazione riguardava i diritti fondamentali, oggi la questione è soprattutto quella relativa alle opportunità di vita

Una recente ricerca condotta dall’Università di Trento sulla pubblica amministrazione provinciale (gli autori sono Antonio Schizzerotto e Marta Feletto) ha messo in luce quanto sia ancora pesante la discriminazione nei confronti delle donne anche in una provincia ricca come il Trentino. Le donne che lavorano nelle amministrazioni pubbliche trentine sono più degli uomini, ma i livelli dirigenziali sono quasi esclusivo appannaggio dei maschi. A parità di titolo di studio, anzianità di servizio ed età, le possibilità di accesso ai ruoli di vertice sono per le donne enormemente più basse . Addirittura, nei ruoli di vertice si trovano spesso uomini il cui titolo di studio è solo il diploma o finanche la licenza media, mentre alle donne non bastano i master post-laurea per avanzare di carriera. Né la situazione sembra cambiare col passare del tempo. E se questo è quanto avviene nella pubblica amministrazione, teoricamente più attenta ad evitare discriminazioni, è logico pensare che nel privato le cose vadano ancor peggio.

La spiegazione va probabilmente cercata nel fatto che sulle donne ricadono gran parte degli oneri familiari: la cura e l’educazione dei figli, i lavori domestici, l’assistenza ai malati ed agli anziani. Incombenze che impediscono alle donne di competere ad armi pari con gli uomini. La causa di questa discriminazione è dunque, principalmente, di carattere culturale.

Le norme antidiscriminatorie, quindi, da sole non bastano. Per garantire reale parità servono le cosiddette "azioni positive", ossia politiche orientate espressamente a favorire le donne. D’altronde, la stessa Costituzione italiana, in uno dei suoi articoli pilastro, il 3, prevede non solo che tutti i cittadini sono uguali davanti alla legge, ma anche che è compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli che, limitando l’uguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana. Le "azioni positive", laddove necessarie, sono quindi espressamente previste già nei principi fondamentali della Costituzione.

Tra le misure orientate a favorire un’uguaglianza non solo formale tra i sessi rientrava la proposta di assicurare, nelle liste per le elezioni provinciali, una quota minima di candidati per ciascun sesso. Proposta che il Consiglio provinciale ha però respinto. Di questa battaglia è stata protagonista Margherita Cogo ed a lei abbiamo rivolto alcune domande.

Dunque, se il disegno di legge inizialmente presentato da Dellai si era distinto anche per le norme tendenti a favorire l’accesso delle donne nella politica provinciale, alla fine, di quelle innovazioni, nella legge elettorale non è rimasto nulla. Ma non è che questa battaglia interessi solo le donne che fanno politica?

"Tutt’altro. Per garantire l’uguaglianza delle opportunità occorre che le istituzioni pubbliche si facciano carico del problema, introducendo politiche mirate a rimuovere gli ostacoli che impediscono alle donne di godere degli stessi diritti degli uomini. Se il problema, ad esempio, sta nei maggiori carichi familiari delle donne, allora è necessario da un lato alleviare queste incombenze rafforzando lo stato sociale (dai nidi all’assistenza agli anziani) e, dall’altro lato, favorire in ogni modo, con apposite norme, la partecipazione degli uomini alla vita familiare. Ma come si può sperare che la politica assuma queste decisioni se, nelle stanze dei bottoni, le donne sono così poche?"

Esiste la Commissione per le pari opportunità, che annualmente riferisce al Consiglio provinciale suggerendo le azioni da intraprendere …

"Già. Ma ogni anno quel prezioso momento di discussione si trasforma in un’occasione per fare sfoggio del più ottuso maschilismo. Siamo in Italia, non in Afghanistan, ma in Consiglio ancora in molti pensano che compito delle donne sia quello di stare a casa dietro ai fornelli o a curare i figli. La collega Dalmaso fu addirittura insultata per essersi presentata in Consiglio nonostante avesse da poco avuto un figlio. Dissero che la Madonna sarebbe stata a casa a curare il bambin Gesù, non si sarebbe messa a far politica. La stessa Commissione per le pari opportunità è stata delegittimata da alcuni consiglieri con l’accusa di favorirmi politicamente, e questo perché mi sono fatta interprete delle proposte emerse da quella Commissione. In definitiva, il lavoro della Commissione per le pari opportunità è prezioso, ma per produrre effetti tangibili bisogna che le istituzioni si dimostrino sensibili al problema, cosa che, alla prova dei fatti, non è".

Molti, di fronte alla proposta delle quote riservate nelle liste di candidati, obiettano che se le donne volessero più rappresentanza nelle istituzioni potrebbero esprimere le loro preferenze per delle candidate donne. Se le donne in politica son così poche, quindi, è perché le stesse donne non considerano questo problema come rilevante.

"Anche i concorsi pubblici non discriminano le donne. E nel privato conta solo il merito. Eppure le donne ai vertici delle istituzioni e dell’economia sono quasi assenti. In politica i problemi sono gli stessi: per una donna partecipare alla politica significa spesso rinunciare alla vita familiare. Solo pochissime possono permetterselo, e con enormi sacrifici. Cosicché, al momento delle elezioni le candidate sono pochissime e, quelle poche sono spesso persone poco in vista, che di conseguenza faticano a farsi eleggere. E poi spesso i partiti, per raccogliere consensi, pescano i candidati tra personalità già note, dunque in gran parte tra gli uomini,, mentre negli stessi partiti difficilmente le donne raggiungono posizioni di vertice. E’ un circolo vizioso, che può essere superato solo attraverso una legislazione che costringa i partiti a dare più spazio alle donne. Il metodo delle quote è utilizzato in molti Paesi stranieri e, quando è stato introdotto, ha dato risultati. La Francia aveva una presenza di donne nelle istituzioni paragonabile a quella italiana, attorno al 10%, ma non appena sono state introdotte le quote la presenza femminile è balzata al 40%. Ed è altrettanto dimostrato che una forte presenza di donne in politica comporta immediati effetti sulle scelte che la politica assume per offrire reali pari opportunità di vita ai due sessi".

E una società più equa nel rapporto tra i sessi, aggiungiamo noi, è anche una società più forte. Un sistema che di fatto taglia fuori dalle posizioni di vertice metà della popolazione, è meno efficiente, poiché pesca le proprie leadership partendo da un insieme dimezzato.

"Giusto. Ma questa argomentazione non vale solo per i cambiamenti che una politica con una forte presenza femminile può produrre relativamente al ruolo delle donne. Vale anche per la politica stessa, dove una scarsa presenza di donne significa minore ricchezza di idee e di sensibilità, venendo a mancare il contributo dello specifico femminile. E’ per tutti questi motivi che un tema come questo non può essere lasciato solo alle donne, come se fosse una battaglia corporativa".

La motivazione con cui il Consiglio ha respinto la proposta della cosiddetta quota rosa è che si sarebbe rischiata un’impugnazione dell’intera legge da parte del Governo davanti alla Corte Costituzionale, com’è successo per la Val d’Aosta.

"Anni fa la Corte dichiarò incostituzionali le quote: da allora, proprio a fronte di quella sentenza, il Parlamento introdusse non una, ma ben due norme costituzionali per rendere legittimo il sistema delle quote nelle leggi elettorali. Parlo del nuovo articolo 117 della Costituzione e del nuovo articolo 47 dello Statuto. Inoltre, con la recente riforma costituzionale sul federalismo è stato cancellato il visto del Governo sulle leggi provinciali. Abbiamo insomma piena autonomia. Dunque, non varare una legge perché si teme che qualcuno la impugni significa rinunciare a svolgere il proprio dovere. Ma anche qualora il Governo avesse impugnato la nostra legge per via delle quote, al massimo la Corte avrebbe dichiarato incostituzionale la norma sulle quote, non l’intera legge. Insomma, non c’era davvero alcun pericolo per le sorti del nuovo sistema elettorale. E se lo dico io che, con la battaglia per la norma transitoria, ho dimostrato di volere davvero questa riforma, mi si deve credere".

Si è però detto che, se la Corte si fosse pronunciata contro le quote ad elezioni avvenute, vi sarebbe stato il rischio di invalidare le elezioni.

"Nella scorsa legislatura la soglia di sbarramento fu introdotta dal Consiglio regionale a ridosso delle elezioni e la Corte riuscì a pronunciarsi per tempo, prima ancora che si chiudessero le candidature. Oggi dalle elezioni ci separa ancora un anno. Nello scegliere quando emettere la sentenza, la Corte avrebbe tenuto conto, come sempre è accaduto, delle nostre scadenze. No, queste obiezioni sono solo un paravento".

Di cosa?

"Del fatto che anche sulla questione femminile la maggioranza dei consiglieri ha pensato a salvarsi il posto. Un ingresso in forze di donne in Consiglio avrebbe lasciato fuori molti degli attuali consiglieri. Prova ne sia il fatto che questa legge, pur avendo salvaguardato il principio secondo cui sono gli elettori a scegliere chi governa, è stata letteralmente riempita di mille zavorre finalizzate a conservare il posto a chi già ce l’ha. Penso all’assurdo limite agli assessori esterni, sul quale siamo rimasti caso unico in Italia e forse tra tutte le democrazie del mondo, ed il cui unico scopo è quello di garantire agli assessori uscenti di tornare a ricoprire quella carica anche nella successiva legislatura. Oppure penso al divieto imposto ai sindaci di candidarsi alle elezioni provinciali, palesemente ingiustificabile quanto meno perché non reciproco ( i consiglieri provinciali possono candidarsi a sindaco). O, ancora, alle norme tendenti a limitare gli effetti maggioritari della legge, laddove si prevede che, se chi vince prende meno del 40%, potrà contare solo su una maggioranza di 18: si è messa a rischio la governabilità al solo scopo di salvare, non dico dieci, ma una sola seggiola".