Donne: brave ma escluse
Come studentesse sono migliori dei maschi; ma quando si tratta di far carriera accademica, le cose cambiano.
A pprofittando dell’8 marzo, il Comitato Pari Opportunità dell’Università di Trento ha diffuso i risultati di un’indagine aggiornata al 31 dicembre 2006. L’obiettivo è quello di riflettere in particolar modo sul rispetto delle delle pari opportunità nell’ambito dell’Ateneo.
I risultati sono netti, in linea con i risultati nazionali ed europei. Sintetizzando: ormai all’università si iscrivono tanti uomini quante donne. Queste ultime ottengono risultati decisamente migliori, ma al termine degli studi faticano a proseguire la carriera accademica. Tant’è vero che più si cresce di fascia (ricercatore, associato, ordinario) maggiore è il gap tra uomini e donne. Fino a giungere al senato accademico (composto dal rettore dell’università e dai vari presidi, le cariche più prestigiose) composto attualmente per il 100% da uomini.
I grafici di queste pagine vanno dunque interpretati su due diversi livelli: sull’analisi quantitiva e qualitativa delle studentesse e sulle loro possibilità di carriera nell’ambito accademico.
In riferimento agli studenti, salta subito all’occhio il fatto che ormai le università sono composte in numero praticamente pari da donne e uomini. Eppure, è solo a partire dal 1998 che si registra la parità (a livello nazionale) delle studentesse: sino a pochi anni addietro l’università contava infatti una netta prevalenza maschile.
Le giovani donne, dunque, investono sempre più nell’istruzione e spesso ottengono risultati migliori dei loro colleghi maschi. Già alle superiori la differenza di rendimento è evidente; ma all’università le donne sbaragliano la concorrenza maschile: si laureano più in fretta, ottengono punteggi più alti, resistono di più alla generale contrazione delle iscrizioni e sopravvivono meglio all’interno del sistema universitario, registrando il minor numero di abbandoni.
Le donne, insomma, sembrano esser riuscite a conquistarsi importanti riconoscimenti, che fino a poco tempo fa erano ancora negati. Tuttavia, restano ancora questioni irrisolte: prima su tutte, la segregazione formativa, ovvero la tendenza a scegliere percorsi formativi "femminilizzati", di tipo umanistico e letterario, a scapito di facoltà come ingegneria o matematica. Difficile pensare che per una questione di DNA le donne trovino meno appetibile degli uomini le facoltà scientifiche; è più realistico pensare che tali percorsi risultano più rispondenti alle loro inclinazioni di creare in futuro una famiglia a scapito della carriera.
E siste dunque una discriminazione indotta di tipo orizzontale; e accanto a questa, una segregazione verticale. Le donne iniziano la carriera a partire da mansioni meno qualificate e impiegano più tempo a ricoprire ruoli di prestigio, se mai quei ruoli arriveranno (vedi quota zero donne nel senato accademico).
"Si tratta dell’effetto soffitto di cristallo, - spiega Alessia Donà, docente di politiche sociali a Sociologia di Trento - cioè quell’ostacolo invisibile ma difficilmente superabile che tiene tante neo-dottoresse al di fuori dei luoghi in cui si decide.
Le ragioni sono difficili da scoprire: azzardando qualche ipotesi, si può parlare di una mentalità, di una cultura accademica che vede ancora le donne come precluse dalle posizioni più alte. O forse possono essere le donne che si autoescludono considerando i costi della maternità. Certo è che finché certi settori non saranno maggiormente femminilizzati, allora ci sarà meno attenzione alle donne: una sorta di effetto domino."
Le fa eco Chiara Saraceno, esperta della famiglia e docente a Torino: "I dati sono insieme attesi (incluso il fatto che i docenti uomini sono la maggioranza anche in una facoltà altamente femminilizzata come Lettere, e probabilmente anche in quella facoltà gli uomini costituiscono la maggioranza degli ordinari...) e un po’ deprimenti, salvo che per il 20% di studentesse ad ingegneria ."
Insomma, donne rassegnatevi. Se volete far carriera, forse è meglio non puntare sull’università. "Anche se - conclude Donà - ci sono segnali incoraggianti. Possiamo forse ipotizzare che nel giro di una decina d’anni la situazione per le donne sarà mutata in meglio ".