L’Europa è contro la guerra
Cono molti e vari i valori e le volontà che stanno alla base dell’integrazione europea. Si sono alternate spinte condivise da tutti e cordate di singoli Paesi, convinzioni profonde e slogan creati per cavalcare un momento. Ma c’è un’idea che apparteneva al ministro francese Robert Schuman come al nostro Altiero Spinelli, a Jean Monnet come a Adriano Olivetti, la convinzione che l’integrazione europea fosse uno strumento per contrastare il pericolo della guerra.
La strada verso la creazione di un cittadino europeo, che superi il senso d’appartenenza a una nazione come arroccamento difensivo e che si senta parte di una cultura e di una identità sovranazionale è ancora - per molti aspetti - all’inizio. Eppure oggi sul tema della guerra i cittadini europei appaiono concordi.
Per diversi aspetti la società europea è stata ed è al traino degli USA. Con ammirazione ne abbiamo preso la scia verso la rinascita del secondo dopoguerra, ne abbiamo ammirato le libertà, la potenza economica e militare, l’amore per la bandiera, i format televisivi e di stampa, l’organizzazione delle aziende e delle industrie. Molto è stato fatto per far rassomigliare la società europea alla società americana, partendo dall’accreditare il cittadino americano di un valore guida, e in molti aspetti si è (purtroppo o per fortuna) raggiunto l’obbiettivo. Eppure nella forma mentis delle persone rimangono alcune differenze fondamentali, una delle quali appunto è l’atteggiamento verso la guerra.
Le generalizzazioni sono sempre lacunose e imprecise, ma non è secondo me sbagliato affermare che nella mentalità americana c’è una sostanziale accettazione della guerra.
Mi spiego. In America (e non solo nella classe dirigente) si crede in una sorta di "terapia della guerra" come medicina ad alcuni mali del mondo (quali e quanti è ad assoluta discrezione), c’è cioè la percezione dell’ intervento armato come uno dei possibili comportamenti da assumere per affrontare una situazione; solo una delle varie carte giocabili, un drastico e imprevedibile asso di briscola, spesso calato con la spensieratezza con cui si gioca un cinque.
Il concetto della "guerra preventiva" che gli Stati Uniti cercano di insinuare in queste ultime settimane è però ancora diverso e ancora più preoccupante. Si cerca di legittimare una guerra come rimedio per scongiurarne un’altra. Questo rischia di scatenare una spirale che Paul Watzlawick, in un libro degli anni ’60 intitolato "La pragmatica della comunicazione umana", chiama "il paradigma della comunicazione". Attualizzandolo alla situazione politica qui in esame, il rischio che il politologo di origine polacca paventa è questo: la dichiarazione degli USA di mobilitare truppe e mezzi per fronteggiare un supposto riarmo dell’Iraq, scatenerà nel Paese del Golfo Persico un riarmo effettivo dettato dalla percezione dell’operazione militare americana come una minaccia. A questo punto però l’America, mostrando a tutti l’avvenuto riarmo irakeno, si sentirà ancora più legittimata a perseverare nella sua azione militare.
Appare difficile a questo punto intravedere un finale diverso da una guerra tra i due paesi.
Oggi, all’ennesima interpretazione americana del ruolo di gendarme del mondo, la risposta dell’Europa è complessa. E’ vero che i governi reagiscono in modo molto diverso l’uno dall’altro, ma è altrettanto vero, e penso molto significativo, che in Germania Schroeder conquisti la vittoria proprio grazie ad un netto rifiuto dell’intervento armato, e che l’Inghilterra, il Paese più "belligerante" dell’Unione, abbia un astensionismo ormai vicino al 50 per cento.
L’America non è abituata a percepire la guerra come qualcosa che possa mettere in discussione la futura esistenza della propria nazione; raramente l’ha combattuta entro i propri confini e raramente era in ballo la libertà propria e dei propri cittadini. Nemmeno la scoperta, dopo l’11 settembre, di essere vulnerabile ne ha modificato la politica militare.
Nella mentalità di fondo della popolazione europea, invece, incidono più o meno inconsciamente il ricordo culturale ed emotivo delle due guerre mondiali, che hanno inginocchiato un continente e cambiato i confini e la vita degli stati che lo componevano. Questi ricordi hanno profondamente segnato la mentalità degli europei ed hanno portato ad una diffusa condanna dello "ius ad bellum", proprio quello che la Costituzione Italiana, all’articolo11, non solo vieta ma addirittura "ripudia".