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QT n. 9, 4 maggio 2002 Servizi

Arabi, ebrei, Occidente

Presupposti storici, culturali e politici per un dialogo difficile ma necessario.

Arabi e ebrei appartengono al comune ceppo semitico: l’antisemitismo del XXI secolo - è fin troppo facile prevederlo - prenderà una nuova direzione privilegiando la componente arabo-islamica. In questa prospettiva diventa importante, fondamentale direi, l’attenzione alla "produzione simbolica": un Papa che entra nella moschea di Damasco o di Gerusalemme a pregare, un leader politico che effettua visite di cortesia alle comunità islamiche, televisioni che dedicano seri programmi informativi alla civiltà islamica sono fatti non di facciata ma di sostanza e servono, forse non a bloccare, ma certamente a contenere la "deriva razzista", ad arginarla nelle coscienze e nella società.

Il razzismo, non il dialogo, è storicamente la nota dominante nei rapporti interreligiosi: la storia ultramillenaria delle relazioni tra cristiani e musulmani, tra indù e buddisti, tra ebrei e cristiani, tra indù e musulmani e via dicendo ce lo prova ad abundantiam. La storia del fragile e recente dialogo islamo-cristiano del periodo post-conciliare costituisce una eccezione, e insieme una delle pagine più luminose della seconda metà del secolo appena concluso, ma, l’esperienza storica e il senso comune ce lo insegnano, un dialogo si mantiene solo continuando a parlarsi…

Molto resta da fare nel sistema educativo e informativo. Quest’ultimo appare fatalmente troppo appiattito sull’attualità e sulla notizia del giorno; ma la scuola può e deve fare di più: nel sistema educativo si decide oggi, in buona misura, l’ampiezza e l’estensione futura di quella deriva razzista che è già in atto.

Anche il mondo musulmano può certamente fare molto di più. L’attentato dell’11 settembre ha avuto quanto meno un effetto positivo all’interno del variegato mondo della diaspora islamica in Europa e in America. Gli imam delle varie comunità hanno dovuto prendere posizione, si è avviato un dibattito interno di cui forse non molto trapela, ma che ha portato a chiarimenti e distinguo importanti.

Certe ambiguità, presenti anche in grandi organizzazioni internazionali come la Lega Musulmana Mondiale o l’Organizzazione degli Stati Islamici sono oggi oggetto di dibattito. I kamikaze palestinesi inducono oggi in molti la falsa percezione che l’Islam sarebbe una "cultura di morte", meno attenta ai valori della vita e alla difesa della dignità umana. Si tende a dimenticare che, non la religione, ma il calpestamento (vero o presunto) di diritti elementari può portare all’extrema ratio delle missioni suicide. Purtroppo noi cristiani non possiamo certo ergerci in questo campo a giudici di nessuno.

Sta comunque ai musulmani della diaspora, specialmente ai convertiti italiani, francesi, americani ecc., far capire con una più intensa azione informativa ai concittadini dei paesi in cui vivono che l’Islam è altra cosa. E ancora, occorre dirlo con chiarezza, sta ai musulmani moderati far comprendere che slogans e proclami di certe correnti estremiste non aiutano di certo a fermare la "deriva razzista". Il problema è che l’Islam moderato, l’Islam liberale, esiste, fino alla metà del ‘900 era anzi culturalmente egemone, ma oggigiorno questo Islam stenta a farsi udire: è fatto di tante voci isolate, piuttosto che di reti efficienti e organizzazioni ramificate. Un dibattito esiste dunque, e non solo tra liberali e fondamentalisti, ma anche all’interno di quest’ultimi.

Non da oggi infatti, anche all’interno della componente fondamentalista, si confrontano correnti radicali e correnti "quietiste". L’idea che essere buon musulmano significhi automaticamente opporsi con la violenza ai regimi corrotti interni si confronta con una posizione che, pur condannando la corruzione dei tempi e dei costumi, condanna pure la lotta armata e ripiega sulla scelta di costruire "spazi protetti": scuole, circuiti assistenziali-ricreativi, circoli e associazioni pacifiche in cui il buon musulmano può vivere il suo ideale religioso in modo non diverso da come lo vivono i membri di analoghe correnti integraliste cattoliche o protestanti. Indubbiamente ancora oggi la componente fondamentalista, radicale o quietista che sia, esercita una sorta di egemonia culturale nell’Islam odierno. Questa egemonia, come appare evidente, rischia di rafforzarsi ogni volta che l’Occidente euro-americano mostra il suo volto neo-colonialista e "imperiale".

Il fondamentalismo rappresenta tuttavia - non lo si ricorderà mai abbastanza - non una maggioranza politica, bensì una egemonia culturale esercitata da una piccola minoranza attiva e bene organizzata, contro la quale non da oggi combattono ferocemente – senza troppo guardare alle garanzie legali - le polizie e i servizi segreti di tutti i regimi arabi moderati.

A titolo esemplificativo, in Egitto, culla sia del modernismo progressista che del fondamentalismo regressivo, nel solo 1999, secondo dati forniti dalla Egyptian Organization for Human Rights (EOHR), si sono celebrati 32 processi contro 1.001 imputati, si sono avute 625 condanne di cui 94 alla pena capitale (67 eseguite).

In mezzo, tra la propaganda di regimi spesso dittatoriali e la propaganda dei fondamentalisti, ci sono popolazioni urbane per il 90%, costituite da masse depauperate e sradicate: ex-contadini malamente inurbati, intellettuali disoccupati, sottoproletariato giovanile, lavoratori sottopagati, impiegati con il doppio e triplo lavoro, poveri bottegai, donne con troppe incombenze. Tutti senza distinzione allettati dalle sirene del consumismo, di un benessere di là da venire, tutti accomunati da infinite privazioni e frustrazioni su cui soffiano a dovere le sirene del verbo integralista.

La "deriva secessionista" dell’Islam odierno e la speculare "deriva razzista" delle società europee e americane non saranno facilmente contenute, tanto meno bloccate, finché Europa e America non chiuderanno davvero con il passato e con la mentalità "imperialista", finché non si faranno carico più direttamente degli enormi problemi che si agitano irrisolti da anni nel calderone mediorientale.