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Trentino: uno sciopero al 90%

Successo (non scontato) dello sciopero contro la sospensione dell'art. 18 (licenziamento per giusta causa).

Fino alla vigilia, forse per scaramanzia, gli stessi sindacalisti di CGIL, CISL e UIL non avevano voluto fare previsioni sulla partecipazione al corteo di venerdì 1° febbraio. La riuscita della mobilitazione operaia sotto il palazzo della Regione, infatti, non era davvero scontata e per molte ragioni.

Il fatto che si trattasse di uno sciopero generale di quattro ore e non dell’intera giornata disturbava, per via degli orari dei turni, la partecipazione fisica al corteo. Se si aggiunge che dalla mobilitazione era escluso il pubblico impiego e la scuola e che per molte realtà di fabbrica il problema era raggiungere Trento dalle periferie per poi rientrare, si capisce come qualche perplessità fosse ben motivata.

Più ottimismo c’era, invece, per quanto riguardava l’adesione allo sciopero, l’astensione pura e semplice dal lavoro.

Invece, al di là di ogni aspettativa, in Trentino non solo l’adesione allo sciopero ha raggiunto quote intorno al 90%, ma la stessa protesta di piazza ha visto una presenza operaia come non la si vedeva da sette anni. Più di duemila lavoratori hanno voluto esserci per dire che l’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori non si deve toccare per nessuna ragione e che delle deleghe al governo sulle pensioni non vogliono sentir parlare. Due temi, questi, che toccano la carne viva del mondo del lavoro e non solo in Trentino, come hanno dimostrato le mobilitazioni delle altre regioni italiane. Nella stessa giornata di venerdì, infatti, lo sciopero riguardava anche Veneto, Liguria, Friuli, Sicilia, Molise e Val D’Aosta. E pure qui una partecipazione massiccia come non si vedeva da anni. Il giorno prima l’adesione agli scioperi regionali in Lazio e in Umbria contro la cancellazione dell’art.18 e le deleghe al governo ha toccato punte che vanno dal 75% delle grandi aziende all’80-90% delle piccole. In Trentino era dal 1994 che non si vedeva tanta gente in sciopero. Un segnale chiarissimo.

D’altra parte, quando il cosiddetto ministro del Welfare Roberto Maroni cala sulla testa dei lavoratori l’idea di sospendere per quattro anni l’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori che cosa c’è da discutere ? Nulla. L’unica possibilità è impedire che ciò accada, per la semplice ragione che, se ciò che chiede Maroni passa, un lavoratore può essere allontanato dal lavoro semplicemente con un po’ di soldi di risarcimento.

Non sarebbe forse questa la generalizzazione del lavoro precario?

Quando nei primi anni Settanta gli operai italiani conquistarono lo Statuto dei lavoratori, l’articolo 18 fu un grande passo di civiltà. Da allora, almeno nelle medie e grandi aziende, i lavoratori possono essere licenziati solo per giusta causa. In caso di licenziamento senza giusta causa, invece, l’art.18 obbliga l’azienda al reintegro del lavoratore. L’art.18, d’altra parte, è nato per affermare il principio del lavoro come diritto. Con l’art.18, cioè, lo Statuto dei lavoratori afferma che il lavoratore non può essere privato del lavoro in quanto il lavoro è un diritto.

Arretrare sul terreno dei diritti conquistati è sempre un arretramento di civiltà, e fa dunque bene il sindacato a non accettare discussioni su questo punto. Così quando l’Assindustria di Trento afferma che "il livello di polemica alimentato sull’articolo 18 appare decisamente eccessivo", dimostra una volta di più quanta ragione ci sia nelle mobilitazioni operaie di questi giorni. Assindustria non è nemmeno sfiorata dall’idea del lavoro come diritto.

A Trento come a Torino, in Abruzzo come in Sicilia, per i padroni di sempre il lavoratore ha la stessa funzione degli impianti e deve dipendere dai bisogni dell’azienda come qualunque elemento della produzione. I lavoratori, come le macchine, devono poter essere usati finché servono, e poi via. Lavoratori usa e getta, cose, non uomini in carne ed ossa detentori di diritti. E’ chiaro che in questo senso l’art.18 è un ostacolo messo di traverso di cui Maroni, su commissione di Confindustria, vuole sgombrare il campo. Forse è la coscienza di tutto ciò che ha portato nelle piazze e nelle strade d’Italia milioni di lavoratori e con loro molti giovani e studenti. Forse è qui la spiegazione dell’adesione di molti precari alle mobilitazioni del sindacato; e anche questo è un dato nuovo.

Nei giorni scorsi una ricerca sulle tendenze nel 2001 dellavoro atipico in Italia metteva in evidenza come i cosiddetti Co. Co. Co. (contratti di collaborazione continuativa) rappresentino ormai il 9% del lavoro dipendente nel nostro Paese. Una quota molto alta, concentrata soprattutto al nord della penisola e fatta di lavoratori privi di ogni diritto e tutela, con salari che è un eufemismo definire miserabili. La maggior parte di questi lavoratori non raggiunge i 20 milioni di lire all’anno di reddito, per non parlare di turni massacranti per pochi mesi a cui non segue nemmeno il rinnovo del contratto. Tutto un mondo, dunque, costretto alla precarietà, ma che sembra non volersi rassegnare.

Un compito in più per chi vuole difendere i diritti del lavoro.