Vogliono abolire un diritto, non un privilegio
L’articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori: perchè è importante, perchè - e come - vogliono abolirlo.
Ma cosa è mai questo articolo 18 dello Statuto dei lavoratori? Già si è fatto un referendum per abrogarlo e il tentativo è fallito. Non passa settimana senza che Fazio, il governatore della Banca d’Italia, tuoni contro le pensioni e la rigidità del mercato del lavoro. I sacerdoti officianti attorno alle magiche virtù del dio mercato puntano l’indice accusatore verso l’articolo 18 come se fosse il demone che frena la nostra economia, che ne inceppa la flessibilità creativa. Ed ecco infine che anche il Governo ha chiesto al Parlamento una delega per sospendere, in via sperimentale per quattro anni, l’operatività dell’articolo 18 per alcune categorie di lavoratori. La temporaneità della misura, il suo dichiarato carattere sperimentale e la parzialità del suo vigore sono tutti accorgimenti maliziosamente calcolati per dividere il fronte degli oppositori, minimizzare gli effetti e così propiziarne l’approvazione.
La proposta del governo va persino oltre l’abolizione dell’articolo 18. Questa norma infatti non fa altro che applicare al rapporto di lavoro dipendente un principio di diritto comune, cioè il principio della esecuzione coattiva di un contratto. Se una persona si obbliga a vendere una casa e poi si rifiuta di farlo, il compratore può chiedere al giudice una sentenza che ha lo stesso effetto del contratto notarile.
Così, per l’articolo 18, il giudice che riconosce che il licenziamento è illegittimo perché privo di giusta causa, ordina al datore di lavoro di riassumere il dipendente. Non vi è dunque nell’articolo 18 nessun particolare privilegio a favore del lavoratore dipendente. Il progetto del governo, sospendendo l’applicazione dell’articolo 18, priva il lavoratore di un diritto che è invece riconosciuto alla generalità delle persone negli altri rapporti giuridici di contenuto economico. Ma - e ciò è ancora più clamoroso - abolisce anche la giusta causa come motivo che rende legittimo il licenziamento. Insomma il datore di lavoro potrà, se questo progetto diverrà legge, licenziare il lavoratore dipendente a suo libito in qualsiasi momento, senza nessuna giustificazione, con il solo obbligo di consolarlo con il precario omaggio di qualche mensilità di salario.
Ma il veleno più insidioso contenuto nella proposta del ministro Maroni è costituito dalla individuazione dei casi specifici della sua applicazione. Infatti la nuova normativa non si applicherà ai dipendenti Fiat e delle altre grandi aziende, ma solo a quei lavoratori che "emergono dal nero", cioè occupati nelle aziende irregolari che decidono di entrare nella legalità, ai lavoratori di imprese piccole che crescendo superano i 15 dipendenti, ai lavoratori con rapporto a tempo determinato convertito a tempo indeterminato. A parte l’assurdità di quest’ultimo caso, ove un datore di lavoro che voglia togliersi dai piedi un lavoratore a tempo determinato basta che generosamente gli conceda l’illusione di un rapporto stabilizzato per acquisire il potere di licenziarlo a suo piacimento, gli altri casi riguardano tutti imprese medio-piccole, nelle quali i lavoratori sono più isolati e quindi più deboli. Il governo insomma dà una mano ai "padroncini", a quella vasta platea di ceto medio imprenditoriale che costituisce la sua base elettorale.
Ma non si tratta solo di questo.
L’erosione dei principi consacrati nello Statuto dei lavoratori, giusta causa e reintegrazione nel posto di lavoro, ha un ben preciso significato politico. La loro conquista significò infatti il riconoscimento che il lavoratore è una persona e non una inanimata componente dell’apparato produttivo. Essa servì a dare ai lavoratori la dignità di protagonisti nell’azienda, a tutelarne la libertà, a consolidarne la forza contrattuale. L’attacco all’articolo 18 mira a demolire tutto ciò. E’ indimostrata ed addirittura risibile la teoria che la libertà di licenziare comporta un aumento dell’occupazione. La verità è che con il suo disegno il governo asseconda i piani più retrivi di un padronato, piccolo e grande, che non sa affrontare la competizione del mercato altrimenti che scaricandone i costi sul lavoro.
Riusciranno i sindacati a trovare la compattezza necessaria per resistere?