Pavese e Baliani: nel ventre delle donne
"E d'accanto mi passano femmine": non facile lavoro di Marco Baliani su Cesare Pavese.
"Cesare! Cesare! Cesare!"; il suo nome, un sussurro, risuona nel teatro. Poi un uomo inizia a danzare, vestito di grigio. Gesti smaniosi, che sembrano ma non sono alienati: nascono dalle viscere, danno sfogo a quello "stato istintivo" che, per Pavese, "influisce sull’intera nostra realtà intima". È’ subito chiaro che lo spettacolo ha un linguaggio suo, intenso, evocativo, ma tutt’altro che immediato. Il ballerino esce di scena, entra Baliani. Ci racconta di come nel ’50 (l’anno in cui morì Pavese) lo estrassero col forcipe dal ventre della madre. Da allora ha una fontanella, un "tallone d’Achille" in mezzo al cranio. In fondo, abbiamo tutti un chiodo fisso nella testa, e quello di Pavese non era né la donna né lo scrivere… era la morte. Ma è attraverso la donna e lo scrivere che Baliani racconta quest’uomo. Teatro del gesto, dell’immagine, della parola.
"E d’accanto mi passano femmine", un’opera non facile, che il pubblico ha apprezzato con le solite eccezioni. Se qualcosa sembra oscuro, la scelta è tra l’amare il suo mistero o respingerlo. Aut aut. Noi l’abbiamo amato, forse anche capito. È’ l’insieme che turba, che appassiona, l’amalgama di danza e pantomima, testi e musica, come le performance d’una volta, col sapore popolare del mito e della fiaba. Sullo sfondo, la trebbiatura del grano, il mare increspato, il rogo delle frasche e di Santina, giustiziata ne "La luna e i falò". Sul palco si vive e si muore di nuovo mentre emerge minacciosa Moby Dick. Il mostro non incarna solo il Male, è la catarsi, l’ossessione inseguita, fuggita; è l’essere primordiale con cui si deve fare i conti per tornare nel suo grembo, come Achab, Giona, Pinocchio. Baliani ha colto il nodo più profondo fra il "mestiere di vivere" – e di scrivere, ch’è poi la stessa cosa – e il suicidio di Pavese. Cosa che, tra l’altro, è sfuggita a molti critici…
Il dramma si conclude così com’era iniziato. Dal ventre materno nasciamo, nel ventre materno moriamo. "Verrà la morte e avrà i tuoi occhi"… quali? Quelli d’una donna amata, della balena bianca, della madre? Tutte e nessuna. Pavese si è ricongiunto al mare. La nave del capitano Achab è svanita con lui quella notte del 26 agosto. Chissà se avrà scoperto nuovi porti negli abissi. Ma da tempo lo sapeva: quel giorno lo aspettava da quando lui tradusse "Moby Dick", nel ’32; e certo anche da prima. Quel gesto rimane, nella voce di Baliani, nei corpi di Giorgio Rossi, Aline, Ambra. E nel pubblico, che è uscito da teatro pensando di conoscere un po’ meglio la sua storia.
Riposa in pace, Cesare, "ma tu non sei morto davvero, sei vivo se ancora parliamo con te".