Mio padre, il fondamentalista
Una testimonianza dal Pakistan. Da “Centomila”, mensile di Lugo (Ravenna).
Scrivo da Toba Tek Singh, la città dove sono nato, che si trova nel Punjab centrale, a 300 chilometri da Lahore. E’ un territorio a presenza contadina, senza grandi proprietari feudali, e la principale fonte di reddito è costituita dal raccolto di cotone, mais, canna da zucchero, frumento.
Negli anni Settanta era uno snodo del movimento dei contadini: il 23 marzo 1970 più di 500.000 persone parteciparono ad una conferenza dei e sui contadini.
Ora la città è sotto il controllo dei fondamentalisti. In centro si vedono le immagini dei martiri (morti durante la santa guerra per il Kashmir) e si trovano scuole religiose (madrasas) in ogni angolo di strada.
I fondamentalisti non hanno ancora i voti, perché sono ancora il partito del Popolo Pakistano e la Lega Musulmana ad avere la maggioranza, ma nelle strade il potere è nelle mani dei fondamentalisti. Molti giovani operai sono stati coinvolti nella Jihad (guerra santa) per il Kashmir e l’Afghanistan; giovani che non possono trovare un lavoro, hanno lì vitto, alloggio e una formazione culturale.
Il presidente regionale delle Lega Musulmana, Javed Hashmi, è stato invitato più volte a visitare le famiglie dei martiri del Kashmir e mi ha detto che quando arriva nelle case è invitato a mostrare gioia, non dolore, per i grandi risultati raggiunti dai martiri.
Sono stato a Lahore per quattro giorni dopo l’attacco terrorista a New York, e il clima fra i lavoratori e i cittadini era di gioia: finalmente era stata data una lezione agli americani. Ma c’era anche pietà per coloro che erano stati uccisi in quell’attacco. Non sentivo fanatismo, non c’era un supporto totale per i fondamentalisti.
Durante i due giorni di convegno dell’Alleanza per il Ritorno della democrazia – il 14 e 15 settembre – sono state espresse condanne per gli attacchi e avvertimenti agli Stati Uniti a non attaccare i cittadini innocenti dell’Afghanistan.
Ma a Toba Tek Singh dominava il fanatismo. Lì ho parlato con mio padre che, da commerciante, era ossessionato da problemi con le banche e quando gli ho detto che condannavo gli attacchi terroristici è rimasto indifferente e mi ha detto che ero il solo, in città, ad usare quel linguaggio.
"Non troverai qui alcun appoggio - mi ha detto - tutta la città è felice per quello che è successo". Dal suo punto di vista i Talebani avrebbe dato un’altra storica lezione all’America. Mi disse anche che per il regime pakistano c’erano poche speranze se si fosse accodato agli americani. "Sono molto felice per quel che è successo in America. - ha ribadito – Il Fondo monetario internazionale e la Banca Mondiale hanno rovinato la mia vita e tutti i miei affari sono adesso nelle loro mani."
Più tardi ho parlato con Mumma, un contadino del posto. Lui mi ha detto che finalmente qualcuno ha dato una lezione alla più potente nazione del pianeta. "Come è potuto succedere?" - gli ho chiesto, e lui mi ha risposto che si trattava di un atto di Dio e che nessuno poteva interferire.
Il 17 settembre sono andato nel villaggio dove ero nato, e ho parlato ad uno dei miei cugini, Afzal. Ha un piccolo negozio sulla strada principale. Mi ha spiegato che è impossibile, per gli Usa, sconfiggere i Talebani. "Come possono batterli se non sono capaci di proteggere le loro città? Quel che è successo ha un che di grandioso".
Sei giorno dopo l’attacco alle torri gemelle, sembra che in generale i Pakistani siano felici e addirittura orgogliosi che qualcuno abbia fatto il lavoro che avrebbero dovuto fare loro. C’è un odio profondo, da parte della popolazione, per l’imperialismo americano, ma c’è anche qualche cosa di più: la marea sta alzandosi a favore dei fondamentalisti. Un contadino ha confrontato l’attacco all’America con quello del contadino contro il signore del posto. Nessuno, nel villaggio, aveva mai pensato di combattere il padrone feudale, ma se qualcuno lo fa gli abitanti sono felici.
Ogni volta che ho chiesto: ma cosa ne pensate delle migliaia di innocenti che sono morti nelle torri?, la reazione normale era che sì, provavano pietà per le vittime, ma allora cosa dobbiamo dire dei milioni di Palestinesi, Sudanesi, Vietnamiti...?