Una mostra e i suoi critici
Credo che la critica artistica sia veramente una prassi a volte defatigante. S’intuisce, leggendo tra le righe, questo sforzo immane votato al non voler uscire da steccati prefissati, da triti panegirici. E tuttavia è positivo che si sollevino delle critiche, anche negative, se sostenute da un pensiero, da un ragionamento. Questo dato distingue perlomeno lo scritto di Stefano Zanella (Ancora sulla mostra di Palazzo Trentini) da quello apparso poco tempo fa su L’Adige, a firma di Riccarda Turrina, che sembrava piuttosto una lunga peregrinazione emotiva (qualcosa in sospeso?) per farci poi sapere che aveva letto Majakovskij. E tuttavia non è casuale che lo scritto di Zanella segua di poco quello della Turrina e ne riproponga alcuni punti di vista, mentre invece per oltre un mese ha regnato il silenzio. Ma queste sono solo sensazioni.
Venendo alla mostra, vorrei anzitutto precisare che nonostante io mi occupi da circa vent’anni di arte, avendo firmato oltre un’ottantina tra libri e cataloghi e collaborato con musei italiani e stranieri, non mi sentirei in ogni caso di avere la sicurezza, quasi kafkiana, di Zanella nel sentenziare "come una mostra non andrebbe fatta". Forse Zanella parla per sua grandissima esperienza nel settore, della quale, peraltro, ho cercato ma non ho trovato tracce significative. In realtà, ogni mostra ha, ed è, una storia a sé, e va considerata per un insieme di fattori, alcuni palesi, ed altri sui quali, in caso di dubbi, conviene chiedere o indagare. Il "problema" dell’allestimento è, infatti, "il" problema, e la scelta dell’"accatastamento" delle opere (come io stesso l’ho definita alla presentazione) è una scelta, dolorosa, ma voluta. E allora, il critico, se vuole essere tale, se vuole approfondire il perché di certe scelte, potrebbe ad esempio sollevare la cornetta, chiamare il curatore della mostra e chiedere semplicemente: "Perché ha accatastato le opere?" Ma evidentemente tale azione esula dall’orizzonte mentale di chi dall’osservatorio della carta stampata crede di aver acquisito una facoltà critica assoluta, e certo unilaterale. E allora scopriamolo questo perché.
Il nodo di fondo era quello di non rifare il verso alla mostra del Mart del 1988, dove si erano esposte le cosiddette "teste di serie", un fatto che - forse sia Zanella che la Turrina erano troppo giovani e non lo sanno (ma ci sono i giornali in microfilm...) - provocò polemiche da parte degli esclusi che andarono avanti per quasi un mese. Quindi il nostro assunto, il progetto globale di questo ciclo di mostre (che, tra l’altro Palazzo Trentini ha sottoposto sia al Mart che alla Galleria Civica!) era quello di offrire un panorama, un "Salon", il più vasto possibile, dell’arte trentina del ‘900, e questo significa propriamente che le "teste di serie" non possono galleggiare nell’aria, da sole, ma devono essere circondate dal maggior numero di artisti, in modo tale che si percepisca il clima, e la varietà delle proposte. La storia dell’arte non è fatta solo di iceberg, di nomi esclusivi, cioè solo di quello che vorremmo vedere. E quella che Zanella chiama "una confusa babele di linguaggi" è invece, paradossalmente per lui, la miglior fotografia dell’intrecciarsi, e sovrapporsi, e divaricarsi, di più e più strade personali e tendenze figurative e non, correnti d’avanguardia e non. E questa è la realtà, vera e vissuta: ed è "disordinata". A questa si può certo opporre il tradizionale sistema "a cassettini", per i critici precisini, perché altrimenti perdono il filo. Ma è una visione adulterata ed "ordinata" solo per nostre necessità (diciamo "limiti") di comprensione, ovvero per la nostra impossibilità a concepire un’evoluzione del tempo e dello spazio (e quindi anche dell’arte) progressiva ma al tempo stesso "trasversale", piuttosto che lineare. Dunque, che la scelta cronologica sia "inadeguata" ancorché usata per un singolo artista è un’opinione del tutto personale, perché per l’appunto, le "fasi creative di diverso peso" in fin dei conti si legano a precisi momenti storici. E solo un percorso cronologico può far comprendere al visitatore che il contiguo percorso degli artisti non è lineare, costante nel tempo, ma, invece, alquanto discontinuo: altrimenti anziché gli artisti avrebbero fatto i ragionieri.
Riguardo al concetto di "mostra", forse sarebbe meglio che Zanella girasse a vederne un po’ fuori provincia, meglio se fuori dei confini nazionali. Sarebbe istruttivo.
Del resto, nella grande sala di Palazzo Trentini, la cronologia è sui generis, perché a sinistra vi sono gli astratti e a destra i figurativi: se n’era accorto?
Ma per concludere, vorrei tornare sull’allestimento che va dunque letto alla luce di questo assunto: mostrare il più possibile, ben oltre i soliti quattro geni, tenendo conto delle evidenti limitazioni fisiche del palazzo. Certo si poteva "far respirare" le opere meglio: bastava esporne solo una sessantina. Ma di chi? Solo dei migliori? Dei soliti noti? Allora sì che saremmo scesi sul piano della mostra del Mart, che era un progetto che mirava appunto ad avviare un primo studio sul periodo mostrandone perciò le cose migliori. D’altra parte credo che qui in Trentino si sia un po’ influenzati dal fatto che spesso gli allestimenti, specie quelli museali, tendono a divenire più importanti delle opere esposte, ovvero loro stessi "opere d’arte". Insomma, il contenitore che soverchia il contenuto. Non si può però pensare di trovare questa pulizia e questo rigore in spazi che non sono quelli del Mart. Altri sono i volumi, ed altri sono i budget. Inoltre, come ho detto alla presentazione (ma Zanella non c’era), non si voleva assolutamente cadere in una sorta di schedatura degli artisti, proprio perché anche per quella vi era già il Mart con l’Archivio di Documentazione sull’arte trentina, ed a lui spetteranno eventualmente gli approfondimenti. E dunque, come si può intuire, si tratta di un progetto che si doveva muovere tra precisi paletti, con grosse limitazioni, ricercando una chiave di lettura "ulteriore", cioè diversa.
E’ un fatto che disturba? Ecco allora il perché di un testo che volutamente non vuole e non può approfondire i mille rivoli di questo "panorama trasversale", e che invece si concentra su ciò che di solito si trascura, e cioè la successione delle mostre. E’ propriamente nel confronto pubblico, e nella scansione temporale delle mostre che noi possiamo leggere il clima dell’epoca, in senso globale. Vedere chi si confrontava con gli altri artisti e con il pubblico e capire chi influenzava gli altri artisti e determinava nuovi sviluppi. L’alternativa era affrontare delle vicende isolate, perché ritenute le migliori, e su quelle imbastire una teoria generale, che però è fallace, perché parziale. Il nostro è insomma un altro punto di vista, ben distinto da quello usualmente praticato, e si può cogliere solo se lo si vuol vedere.
Ma non credo si possa liquidare con una battuta.
Quanto alla competizione tra Palazzo Trentini ed il Mart, da quanto sopra si evince che non vi è, né vi è mai stata. Semmai era in altre sedi, e alludo a Galleria Civica e Mart, ed il fatto che il sottoscritto abbia sollevato la questione qualche mese fa ha probabilmente prodotto l’intervento della Turrina, che già allora se n’era uscita in difesa della Coen (e di se stessa...).
Allora ci si dovrebbe interrogare dove va la critica trentina, e se mai disponga di solide basi per esercitare il suo ruolo, evitando un uso personale del giornale, aprendosi ad idee ulteriori che non siano quelle usualmente praticate, e considerando più a fondo i perché di quello che non si incasella a dovere come si vorrebbe.
E’ ovvio, a questo punto, che se non si offriranno volontari Zanella e la Turrina, la prossima tranche, 1975-2000, avrà lo stesso taglio delle altre: per coerenza. Con un "se".
Ho infatti già chiesto formalmente all’assessore alla Cultura del Comune di Trento, Michela Bertoldi, di poter usufruire di spazi comunali in aggiunta a quelli di Palazzo Trentini. "Se" sarà possibile averli, eviteremo così l’accatastamento, ma certo non il percorso cronologico.
Maurizio Scudiero
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Una mostra sulla "realtà disordinata"?
Riguardo ai tempi e al pre sunto silenzio, è evidentemente sfuggito al curatore della mostra un primo pezzo del 13 ottobre in cui, senza attendere il parere di altri, ho brevemente espresso il mio, sostenendo che la sua impostazione della mostra non solo disturba ma "contrariamente ai dichiarati intenti didattici, rende molto ardua la comprensione delle dinamiche del periodo".
Sul nocciolo della questione, vorrei solo dire che non faccio obiezioni all’idea in sé di allargare lo sguardo a ricerche meno note e celebrate, purché si abbia chiaro che: a) la preoccupazione di evitare le "polemiche degli esclusi" non è una buona consigliera nelle scelte; b) se manca lo spazio, il progetto diventa a mio parere impraticabile, anche volendo applicare l’impostazione qui esplicitata dal curatore, che continuo a non condividere.
Di fronte alla sua convinzione di aver dato "la miglior fotografia" di una realtà "disordinata", mi chiedo che cosa riesca a portar via un ragazzo o un adulto ai primi approcci conoscitivi con quel pezzo di storia dell’arte: certamente l’idea che la realtà è disordinata; ma forse per questo non serviva una mostra.