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Bruno Kessler, il suo sogno, la realtà

Sono trascorsi solo dieci anni dalla morte di Bruno Kessler, ma ne sono passati quaranta dall’avvio della sua esperienza riformista in Trentino, quasi cinquanta dalla consapevolezza da lui espressa in Consiglio Regionale, che la gestione conservatrice e trentinocentrica della Regione era finita in un vicolo cieco.

Nei ricordi inevitabilmente sfocati dalla memoria, la figura di Kessler è stata sradicata dal suo tempo, il tempo della più ricca stagione riformista che la Repubblica abbia mai avuta. Ricorre la parola "intuizioni" (sull’Università, l’urbanistica, lo stato sociale) quasi si trattasse di un veggente, non di un politico pienamente inserito in quei primi anni Sessanta, la stagione del riformismo del centro-sinistra di Lombardi e Giolitti, di Sullo e di Sylos Labini e Saraceno; se vogliamo di Nenni, di Moro, di La Malfa.

Il tempo riformista della programmazione e del conseguente forte interventismo dello Stato: basti pensare al provvedimento temerario della nazionalizzazione dell’energia elettrica e del rilancio di tutta la strumentazione delle partecipazioni statali, la tentata riforma della legge sul diritto dei suoli e quindi di una nuova innovativa politica urbanistica, che costò ministero e disperazione al povero Sullo che ad essa aveva creduto, della riforma della scuola media unica e dell’apertura dell’accesso all’università.

E fuori, nella società, l’avvio dele battaglie per il divorzio e i nuovi diritti civili. Dopo la glaciazione centrista la società italiana tornava a parlare e a germogliare.

Non era scontato che l’aria del rinnovamento arrivasse fin quassù, dove tutto appariva chiuso e cristallizzato. Kessler riuscì a portare qui, anzi a sperimentare prima e più che altrove, quello che gli uomini migliori del nuovo corso vedevano rapidamente incepparsi e deteriorarsi a Roma.

Arrivò Samonà uomo di sinistra, con l’aurea che gli derivava dai suoi studi e dai suoi insegnamenti, dall’essere uomo di punta di una sinistra che voleva uscire dai ghetti dell’opposizione e delle ideologie, e fu un progetto di Trentino nuovo, dell’"effetto città" che avrebbe dovuto riscattare secoli di miseria e di emarginazione. Venne Bobbio a garantire che l’Università non sarebbe stata una succursale della Cattolica, voluta per perpetuare un’egemonia confessionale per i decenni a venire, come temeva una parte di una sinistra prevenuta per i troppi clericalismi vissuti.

Kessler ebbe il coraggio di essere qui quello che altrove tentavano di essere uomini della sinistra riformista, ebbe la capacità di lasciar intravedere al suo popolo un sogno, che in quel momento non poteva che essere quello del riscatto dalla miseria e dall’emarginazione culturale e sociale.

Il successo parve arridergli, ma poi ci si accorse che la DC riformista non era, e il salto nel futuro si chiuse una domenica di sole con l’adunata reazionaria "delle aquile" in Piazza Duomo, voluta da Flaminio Piccoli in contrapposizione esplicita al movimento stdentesco e alla politica di Bruno Kessler: a rimarcare che il Trentino voleva restare altro, rispetto al laboratorio di idee e di realizzazioni messo in moto.

Ci si accorse anche che la sinistra era troppo debole e spaurita, culturalmente poco attrezzata per cogliere la sfida di un riformismo che passava sopra la propria testa, simboleggiata da un uomo disposto ad ascoltare, assai poco a condividere un progetto gestito qui esclusivamente dai suoi chierici. Ci si accorse, come è stato ricordato in questi giorni, che il filone autonomista storico poteva dare poco o nulla ad un progetto che evocava futuro, quand’esso sopravviveva solo ricordando il passato.

Altrove la stagione riformista si chiuse nell’estate del 1964, poiché il tintinnar di sciabole (una minaccia di golpe patrocinata dal presidente della Repubblica Segni) convinse i leader socialisti Nenni e De Martino ad anestetizzare il progetto riformista. Qui invece Kessler riuscì a proceder per qualche anno ancora e a dare senso compiuto ad alcuni impianti normativi che reggono all’usura del tempo. Anche perché altre stagioni riformiste non hanno più avuto possibilità di dispiegare in modo compiuto i loro effetti sul Trentino.

Furono approvati il piano urbanistico e i comprensori, L’Istituto Trentino di Cultura, i provvedimenti ed istituti per dar sostanza al diritto allo studio e alla casa, i centri scolastici, e con l’asse Kessler-Benedikter, le competenze fondanti di un Trentino che ambiva a gestire il suo destino.

Ma le leggi e gli ordinamenti senza afflato ideale e tensione culturale perdono presto la loro forza propulsiva e vedono spesso pervertiti gli obiettivi e le ragioni per cui furono varati.

L’effetto città portò i condomìni a Marilleva, ma accentuò l’abbandono del piccolo mondo che sulla sponda opposta del Noce aveva testimoniato la vita della comunità solandra: Castello, Ortisè, Menas. Iniziò la stagione dei non luoghi impiantati artificiosamente nelle nostre valli, copiati di sana pianta da qualche stazione della Savoia o addirittura della lontana America. Il successo economico, precario fin che si vuole, ci fu, ma si perse l’anima, l’anima di una valle, di tante nostre valli.

Allora parve la strada giusta; i consensi al di là di qualche mugugno, furono unanimi, unanime il Consiglio provinciale a votare i provvedimenti di governo del territorio, quasi unanime a votare l’avvio dell’esperienza universitaria. Sostanziale fu l’adesione a questo progetto di modernizzazione che fu illustrato in città e nelle valli, ottenendo un consenso di popolo che sembrava irreversibile.

Fu invece una stagione ricca quanto breve di idee, progetti, uomini preparati disposti a spendersi per sostenerla, colta da Bruno Kessler per il Trentino: e fu a nostro avviso il suo merito maggore.

L’aver resistito nel progetto qui, quando in Italia questo si appannava ed era normalizzato, è prova di una perseveranza personale che molti altri non ebbero.

La paura di Kessler era che il Trentino rimanesse piccolo e solo; il suo antidoto una rapida modernizzazione. Il limite del disegno fu l’aver importato acriticamente modelli non pensati per la nostra realtà. Ma quello fu forse un errore di cui allora era difficile avere coscienza.

Oggi non è più così; e il compito degli attuali (eventuali) riformatori è quello di declinare un’ulteriore modernizzazione con le vocazioni e non con improprie omologazioni. Per poter recuperare un "sogno" che Kessler seppe evocare e in cui molti credettero.