Quando il palcoscenico divora
Capricci amorosi, spacconi, arlecchini…: alzi la mano chi non ha mai creduto che fossero loro il teatro, la giostra bonaria e graffiante delle passioni. Non ve n’è traccia in "Dopo la prova"; proprio qui, dov’è raccolta la summa d’ogni spettacolo, d’ogni possibile parte ed attore, Bergman mostra l’altro volto del teatro, il suo doppio crudele, folle, disperato come Artaud. Nessuno intende quel silenzio, la solitudine che abbraccia un regista "dopo la prova", quando sul palco appare chiunque vi ha recitato, e sulle poltrone vuote chiunque vi si è seduto.
L’intrico della trama nega la razionalità come il principe Sigismondo ne "La vita è sogno". Dove inizia il giorno? Dove finisce la notte? Vogler s’addormenta, stremato dalle prove del "Sogno" di Strindberg, che lo trascina in un incubo. Mutato in personaggio, il regista incontra fantasmi del passato, del presente, amori bruciati e poi spenti dal gelo degli affetti. Vede ciò che gli attori non vedono, ma non sente le campane che suonano solo per chi arde di passione. Per lui non esistono uomini e donne, solo pubblico e attori.
Tutto è parte dello scenario. Un telo grigio copre oggetti di vecchi allestimenti: è lo stesso indossato da Rakel mentre recita l’addio di Antigone. Le pulsioni muoiono persino davanti al seno nudo di Anna: non c’è vita né sesso fuori dello spettacolo. Vogler non gioca con le vite altrui, ma le piega ugualmente al suo volere, alla causa superiore del teatro. Lascia Rakel sul viale del tramonto, eppure non si sente responsabile del suo suicidio. Anna (figlia di Rakel) abortisce pur di essere la star del "Sogno" e lui si preoccupa della parte più che del bambino. La sua è una fede cieca, un sacrificio totale che lo aliena dagli altri. Per questo la recitazione è affidata a tre registri. Quasi monocorde quella di Lavia, prigioniero del suo culto, adirato con chi non lo comprende; appassionata, a tratti eterea la splendida Rakel della Azim, innamorata dei suoi personaggi, incapace di vivere senza recitare, così fragile, volubile come le figure d’un caleidoscopio. E poi Anna, con la voce distaccata ma calda della Bonani, che sopprime ogni emozione come ha già fatto col suo bambino, divenendo l’erede di Vogler.
Personaggi dannati, estremi, com’è naturale in uno Strindberg filtrato da Bergman. Chi non ricorda "Un mondo di marionette" o "Scene da un matrimonio"? Non a caso quest’ultimo fu diretto proprio da Lavia, che con Bergman ha stretto un sodalizio profondo. Cose e persone sono abbandonate al confine fra oblio nostalgia sogno realtà, senza soluzione. Nelle scene di Giammelio ogni oggetto evoca un mondo: "Il giardino dei ciliegi", "Antigone", "Cyrano" sulle note gravi di Nicolini. E intanto il regista, come un nuovo Re Lear, annienta i suoi attori "in questo palcoscenico di pazzi".