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QT n. 3, 10 febbraio 2001 Monitor

John Cale, un mito ai margini

John Cale entra in scena, si siede su uno sgabello: "Hello Trento, this is Louisiana ", e attacca un brano di tre accordi di chitarra. Il palco del Sociale è approntato con i pannelli acustici in legno come per la Haydn. Lo scopo è acustico, ma l’effetto molto serio, reverenziale. In sala un pubblico di circa duecentocinquanta persone più incuriosite dal nome e pronte ad omaggiare il mito, piuttosto che ad apprezzare e riconoscere la sua produzione musicale. Inevitabile, considerando che Cale è preceduto da una notorietà forse maggiore come musicista, collaboratore, produttore di grandissimi del rock, più che autore in proprio. Insomma, un alchimista dietro le quinte di artisti che per altro, ad esclusione di Patty Smith, sono spesso risultati looser del rock business: dai Velvet Underground, agli Stooges, Nick Drake, Jonathan Richman, per lo più riscoperti nei decenni successivi alla loro attività.

Comunque un pubblico attento, aperto alla scoperta, piuttosto che di fan-fanatici. Un pubblico nuovo ed altro che si vede poco a teatro, perché poche sono le occasioni per lui. Ma questa è una di quelle.

Ancora qualche brano alla chitarra, poi Cale passa al piano e il concerto si delinea sempre più come un recital di ballate in cui la sua voce, il suo tocco, la sua formula compositiva risultano estremamente personali, ma anche riconducibili a molti altri musicisti e melodie già ascoltate. Qualcosa di distintivo e collettivo insieme che mette ancor più a fuoco la sua natura di produttore ed ispiratore di altri musicisti. Dolente come un Tom Waits, ma non così orco nella voce, dissonante ed iconoclasta come i Velvet in brevi risvolti isterici, loquace come Dylan in certe ballate poetiche, ubiquo tra dramma ed ironia secondo lo spirito di certo folk gallese.

Cale si muove tra il colto e il grottesco, tra forma classica e acuti destrutturanti. Ne è un esempio la versione di "Heartbreak Hotel", dove si disinteressa della ritmica per concentrarsi sul dolore-disagio del testo, sottolineato da un piano che reinventa l’armonia in forma espressionista. In scaletta, poi, "Cable Hogue" e "Things to do in Denver when You are Dead", brani ispirati rispettivamente al film di Sam Peckinpah e Gary Fleder, che contribuiscono a costruire l’articolato quadro di riferimenti dell’artista. Ma è solo con "The Style it takes", tratto dall’omaggio ad Andy Warhol e "Songs for Drella", realizzato con Lou Reed, che il pubblico riconosce il brano dalle prime note, evidenziando ancora una volta il riconoscimento al comprimario, più che all’autore.

Evidentemente è così che vanno le cose per John Cale, figura imprescindibile della cultura rock, ma al margine della notorietà quando non associato ad altri.

Nei bis un altro classico come "Hallelujah" di Leonard Cohen e poi tutti a casa.

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