Cast away, di Robert Zemeckis
E’ sugli schermi l’ultimo lavoro di Robert Zemeckis, "Cast away", film spettacolare, di splendide, suggestive immagini, di ottima interpretazione. Detto così, sembra uno spettacolo di soli effetto ed esteriorità, e lo è in parte, ma, a farne un intrattenimento più interessante, lo percorre anche un filo tematico, la cui articolazione dentro le tre parti che compongono la vicenda, una centrale nella natura, un prologo e un epilogo urbani, porta lo spettatore a riflettere sull’esistenza dell’uomo nel presente, e sulle questioni essenziali connesse, a seguito delle domande stesse che si pone il protagonista. Per mala sorte finito in una situazione preistorica, visivamente un paradiso, di fatto un inferno, a dura prova sarà messa la sua capacità di resistenza e ingegnosità; così come verrà incrinata la sua composta adesione alla modernità tecnologica, che estromette temi esistenziali e filosofici, appendici ormai fuori moda, accoglie miriadi di oggetti, effimeri ossequi al consumo, e stringe l’uomo in una rete sempre più soffocante, dalle cui maglie passano frammenti e non l’intero.
Chuck Noland, ingegnere in un’azienda per la consegna dei pacchi urgenti, con l’incarico di rendere efficace al massimo il trasporto e risolvere in anticipo ogni problema, è prigioniero della sua stessa efficienza e del tempo scandito senza tregua, senza più pause per sé e per la fidanzata Kelly, che lascia la sera di Natale per l’ennesima partenza, con la promessa del ritorno a Capodanno. Ma l’aereo precipita nell’oceano, al largo di un’isola deserta, prossimo approdo di Chuck, unico naufrago. In questo scenario naturale, dove è stato catapultato come uno dei pacchi di spedizione, alcuni dei quali affioreranno, patetici, a riva, egli impara a superare immani difficoltà ingaggiando un’aspra lotta con la natura e con se stesso, per sopravvivere e per tornare al suo mondo e a Kelly. Ce la farà e, ripescato da una nave superattrezzata, caricato su un aereo della ditta, eccolo di nuovo a casa: troverà Kelly sposata con prole, si incontrano, dicono di amarsi, ma le strade sono divaricate e ognuno seguirà la propria.
La parte centrale del film, poco allettante nella messa in scena rude e irta delle sgradevolezze di una natura sì suggestiva ma indifferente e ostile, dove Chuck solo, senza gli strumenti elementari per organizzarsi da zero la vita, in una spossante unità di spazio e di tempo (quattro anni, ma di interminabile angoscia sempre uguale), è certo la più emozionante, e il perno attorno a cui si svolgono l’avventura e il mutamento dell’eroe. Ma pure la parte iniziale e la conclusiva, più in sordina e specie l’ultima un po’ debole e sospesa, sono funzionali allo sviluppo della linea tematica e narrativa che ha il suo apice, appunto, sull’isolotto splendido di colori, tramonti e dirupi: qui Tom Hanks, interprete straordinario, è alle prese con la sopravvivenza, fisica e psicologica, che gli svela il valore degli oggetti-utensili, e con l’affiorare di riflessioni e perplessità sull’esistenza, con domande essenziali da lui finora rimosse; trovandosi infine spogliato della fallace apparenza della modernità, liberato dalla trappola di un tempo programmato al minuto, arricchito della risorta capacità di pensare e esprimere pensieri ed emozioni, sia pure solo ad un pallone, Wilson, adibito a confidente, con cui apre il suo intimo e che si fa prova dell’istinto sociale dell’uomo.
Crusoe e Ulisse sono i riferimenti classici, e civili, tra cui si elaborano la sua capacità di continuare a respirare, sopravvivere e tentare il ritorno al suo vivere, e l’evoluzione da uomo-efficienza a uomo-soggetto. Nel primo si rispecchia l’aspetto della primitività in cui viene sbalzato, dove dovrà imparare a procurarsi elementi primi alla vita quali fuoco, acqua, cibo, riparo, in un ambiente persino crudele nell’apatica penuria di tutto, tranne che di disperante solitudine, a riconoscersi in una nuova identità che si va, per forza, delineando, e assimilare la nozione di un tempo scandito solo dal suo stesso respiro e pulsare del cuore. In Ulisse si rispecchiano l’anelito al ritorno, pensiero fisso tenuto vivo dal pensiero di Kelly, il cui volto gli sorride dalla piccola foto sempre esposta e via via più sbiadita, e la costruzione della zattera in cui investe tutto se stesso, fino ad osare la sfida delle gigantesche onde oceaniche. Fra questi due miti Chuck, già parte di un ingranaggio tecnologico, mera presenza estraniata da sé in una modernità che soffoca e risucchia, frantuma la comunicazione e l’esistenza tutta, percorsa sì da disagi palpabili ma inconsapevoli, dopo lo smarrimento e lo sforzo di acuminare ingegno, pazienza e forza, a confronto con l’immensità e un vuoto che fa intravedere il nulla, si ritrova diverso: già sull’isola, e poi nel suo mondo, ben visualizzato nel finale, nel piatto crocevia di strade tutte uguali che si allungano più deserte dell’isola, senza orizzonte visibile, verso non si sa dove. Egli, dopo il commiato commosso da un amore, sua unica risorsa nella tragica esperienza, che persiste ma non ha più l’humus adatto, è fermo, con la cartina in mano, e si guarda intorno tranquillo, senza fretta, curioso e pensieroso sulla via da intraprendere. Allo spettatore tirare i fili e concludere.