Prosciugare l’acqua per affogare nel cemento
Roncafort come la via Gluck. Storia di una urbanizzazione selvaggia. Le cose devono per forza andare così?
L'area di Roncafort è una piana alluvionale, circa 300 ettari a nord di Trento, incuneata tra ferrovia del Brennero ad est e Adige ad ovest ed estesa fino al loro congungimento presso la foce dell’Avisio. Alla fine del Settecento questa superficie, come buona parte del fondovalle a nord di Trento, è quasi del tutto inabitabile, formata com’è da un alternarsi di acquitrini, buche, distese di ghiaia, anse, rami secondari di Adige ed Avisio. Per farsene un’idea, basti soffermarsi sui toponimi ancora in uso della zona: Spini, Lamar (la palude), Giare, Laghi, Ischia (ischia - dialettale iscia = boschetto di arbusti di scarso pregio).
Ogni tentativo di bonifica anche parziale con riempimenti, muri di contenimento, tagli di diramazioni viene spazzato via, quasi con metodo, dalle cicliche esondazioni dell’Adige.
Solo dopo il 1850, grazie a nuove tecniche, si avviano una serie di sistemazioni idrauliche con roste, argini e tagli di anse che danno certezza ai lavori di bonifica. Numerosi contadini cominciano a "roncare" il terreno per predisporlo alla coltura: buche riempite e prosciugate, la ghiaia raccolta e sepolta in profondità, l’eccesso di pioggia canalizzato in fossi, la terra recuperata con gerle nelle buche e dal letto del fiume durante le magre.
I primi padroni, tutti di estrazione nobiliare come i conti Clotz, Thun, Melchiorri, Crivelli, insediano sul territorio in via di bonifica i loro masadori. Sono questi che danno vita ai primi nuclei stabili di abitanti, i Conci, i Sevignani, i Merz, i Faes, il vero zoccolo duro dei Roncaforti.
A fine Ottocento la piana è tutta bonificata e nel 1895, sul suolo donato da certo Massimo Gennai, si inizia la costruzione della chiesa, aperta al culto il 22 ottobre 1899, giorno da considerare come la data in cui un insieme di famiglie sparse di masadori diventa una comunità.
Ad inizio secolo i nobili, un po’ alla volta, vendono la terra e molti dei masadori ne diventano i proprietari.
Pagano la terra che essi stessi hanno inventato con le loro mani, ma la soddisfazione di "sfoiar" le pannocchie per sé invece che per il conte è grande. La fertilità del territorio e l’abbondanza dell’acqua rendono bene ed il surplus viene portato in piazza Erbe a Trento lungo l’attuale via Caneppele, su carri trainati da buoi ed in parte avviato per ferrovia verso Innsbruck.
Una vita tranquilla e decorosa finchè l’eco degli spari della "fatal Sarajevo" si fa sentire fin lì. Siamo nell’autunno del ‘14 e un bel pezzo di campagna passa all’esercito imperiale per la costruzione dell’aeroporto militare.
E'il primo "attacco" alla terra roncata con tanta fatica: una striscia di 2.000 metri per 100 più caserme, hangar per 60 aerei e strade occupano circa 30 ettari, il 10% del totale.
Nel 1915, con l’entrata in guerra dell’Italia, inizia anche il dramma della comunità appena costituita: prima i masi, eccetto due, e il primo maggio la chiesa vengono demoliti con l’esplosivo per favorire il decollo degli aerei e la difesa antiaerea, mentre gli abitanti vengono trasferiti in zone interne dell’impero. La campagna è attraversata da un fortino in pietra rossa con muri di un metro e una luce interna di sei e da trincee protette da un intreccio di filo spinato elettrificato che costa subito la vita ad un paio di buoi usati per sperimentarne l’efficacia.
A guerra finita, la zona è devastata, ma i masadori, appena possono, rientrano ed in fretta ricostruiscono le case e recuperano la campagna, eccetto lo spazio dell’aeroporto, ormai preda delle aquile del duce.
Negli anni Trenta i residenti, meno di 300, sono tutti impegnati nell’agricoltura: si producono ortaggi freschi e frutta portati coi carretti al mercato di Trento. Di quel periodo i residenti ricordano la calma, gli stormi di tordi e fringuelli, l’acqua pulita dei fossi dove guazzavano pesci anche di due-tre chili ed il gracidare delle rane, così forte in primavera da impedire il sonno.
Poco male: rane d’estate e uccelletti d’autunno fanno spesso da contorno alla polenta. Nelle stalle mucche, qualche pecora, cavalli e buoi garantiscono latte, lana e forza lavoro. La comunità cresce e sviluppa un forte senso di appartenenza rafforzato da molti matrimoni tra i figli degli agricoltori.
Racconta nonna Irma, 93 anni, indicando la campagna davanti a sé: "Sono nata là e dopo sposata mi sono spostata qui e qui sono nati i miei figli".
I cognomi degli abitanti sono gli stessi dei primi coloni: Faes, Tasin, Cestari, Gozzer, Stenech, Frizzera, Casagranda, Merz, Banal.
Nel ’35 si insedia a fianco dell’aeroporto la "Caproni", che avvia la produzione di aerei militari. Gli occupati, quasi 1.400 già nel ’38, arrivano ogni mattina in bicicletta da Trento, Gardolo e Lavis passando tra i pomari, le vigne e gli orti. I nuovi arrivati non portano alcun beneficio a Roncafort: vengono fin lì, tra capezaie e fossi, per lavorare, ma la sera se ne vanno portandosi via il guadagno e lasciando lì solo traffico, rumore e campagna occupata. L’unica contropartita per i residenti sarà una lunga serie di bombardamenti su tutta l’area dell’aeroporto (244 incursioni) e del Pont dei Vodi (270 incursioni). Le bombe penetrano in profondità nel terreno morbido ed esplodono riversando dal fondo sabbia tutt’intorno: migliaia di buche si riempiono di acqua e la campagna ben coltivata torna acquitrino.
Un episodio poco noto della Resistenza trentina: nel ’43, dopo la presa di controllo da parte nazi ‘camerel’ (il liquame raccolto in vasche stagne sotto i cessi a caduta), metteva una botte sul carretto, la riempiva e si avviava verso i campi lasciando dietro di sé una puzza terribile. Io lo seguivo col ‘bazon’ con cui tiravo fuori un po’ di camerel dalla botte e lo versavo alla base delle verdure… puzzavo per una settimana…"
Nel 1958 chiude la Caproni ed arriva l’Aeromere, poi la Panauto e la Laverda che, a rate, licenzia quasi 700 operai, ma ben pochi a Roncafort si trovano senza lavoro: la gran parte dei 350 abitanti sono i figli o i nipoti dei primi roncadori e vivono intensamente la propria terra.
Ma Trento cresce e l’esaurimento e l’alto costo dei terreni per l’edilizia in città e a Campotrentino nonché la necessità di terreno per zone artigianali rende quasi obbligatorio l’assalto a Roncafort, fin lì conosciuta per il fortissimo vento che puntualmente la spazza ogni sera ed il poco solo che vi batte per la vicinanza del Soprassasso.
Il secondo attacco lo porta l’autostrada che si mangia territorio della frazione per 4.500 metri di lunghezza e 32 di larghezza per un totale di quasi 15 ettari e, cosa più grave, separa per sempre Roncafort dal suo fiume. Si costruiscono i primi casermoni da 6-8 piani abitati, come "ultima spiaggia", da chi non può permettersi un appartamento ai prezzi di Trento o da chi è in attesa di una casa in un posto più comodo, magari sulla collina di fronte che in inverno ha sempre una-due ore di sole in più.
Tutti, a Roncafort non trovano nulla, né un medico, un supermercato, una banca, un cinema, un campo da tennis... I nuovi arrivati, per lo più operai e impiegati, lavorano in città, fanno la spesa a Gardolo, mandano i figli a scuola a Trento: i loro ritmi e le abitudini sono inconciliabili con quelli dei residenti e ciò impedisce il formarsi di una comunità integrata. Lentamente i connotati rurali originari sfumano: la preesistente maglia agricola di campagna, fossi e masi, è soffocata giorno dopo giorno, metro dopo metro dall’edilizia. Dove fino a ieri uno coltivava in silenzio mele, oggi c’è una grata rossa che delimita l’area di scavo di un nuovo cantiere, il tracciato di una nuova strada…
E loro, lo zoccolo duro? Da tutte queste novità non hanno avuto alcun beneficio o cambiamento, anzi... C’è chi ha dovuto far fuori galline e conigli perché gli odori danno fastidio ai nasi fini dei nuovi arrivati di città, chi si ritrova nell’orto un palazzo di 7 piani che gli nasconde il sole sei mesi all’anno, chi si vede espropriare un’intera "col" per far posto alla fermata del tram e chi picchettare il campo degli asparagi per la nuova uscita della tangenziale.
Siamo alla fine degli anni Settanta e quello iniziato sembra per la ancora verdissima Roncafort di allora un percorso senza ritorno. Qualche Cassandra inascoltata lancia allarmi, ma solo nel ’87 un politico, il consigliere comunale di opposizione Sbop dichiara Roncafort spacciata: nella gaia Trento delle metropolitane di superficie e dei finanziamenti a fondo perduto si è deciso che servono 100 ettari per trasferirvi lo scalo ferroviario Filzi, la dogana, l’Interporto… Detto fatto e ruspe prontamente in azione: 100 ettari di terra per una profondità media di un metro (un milione di metri cubi!) portati via per ripristinare terreni in val di Non, sulla collina di Meano, in Alto Adige: i Roncaforti vedono andar via su camion la terra strappata al fiume 100 anni prima dai loro antenati e sostituita da scarti di lavorazione del porfido di Albiano.
Il panorama è desolante: non un solo albero a frenare il vento che, ogni sera, invece del rassicurante buon odore di campi coltivati, porta su Roncafort nuvole di silicio. Adesso un muro di contenimento alto da due a tre metri segna il confine della frazione verso nord. I Roncaforti sono circondati: verso nord il muro, ad est l’autostrada e la tangenziale, ad ovest la ferrovia. Resta solo l’apertura verso sud, proprio nella direzione da cui sta arrivando un abbraccio soffocante. Naturalmente serve anche una strada a 4 corsie a servizio dell’Interporto: altri 4 mila metri per 20, ossia 9 ettari di asfalto, catramano orti, pometi, sparzare e vigne.
I residenti, attoniti ed impotenti, azzardano qualche timida protesta chiedendo al Comune di tener conto non solo di quelli che vorrebbero venire a Roncafort ad abitare o produrre, ma anche di quelli che ci sono già. Il costo del terreno lievita giorno dopo giorno ed i contadini, scarpe grosse e cervello fino, si accorgono che con le 200.000 lire per un metro quadrato di terra spuntate a Roncafort possono comperarne dieci a Romagnano ed anche di più nel basso Sarca, a Dro ed Arco. Per molti la terra diventa soltanto una questione di soldi, ma forse anche di tempi che stanno cambiando.
Oggi i pronipoti dei roncadori vanno a scuola a Trento, acquisiscono abitudini da città, le stesse dei nuovi venuti e ben pochi preferiscono il lavoro nei campi a quello in ufficio o in fabbrica: niente grandine, siccità, oidio, calli sulle mani.
E’ di questo periodo anche l’ultima notizia certa di una mucca "residente" a Roncafort. A metà anni ’80, quando il destino della frazione sembra quello di divenire anonima periferia di Trento, alcuni giovani "indigeni" decidono di reagire. Formano "Il gruppo", un’associazione ricreativo-culturale con l’intenzione di risvegliare la comunità dal torpore passivo in cui è caduta e portare con forza in municipio precise richieste urbanistiche e sociali a favore dei residenti. Si accontentano di poco, forse di troppo poco per esser presi sul serio: prima di tutto una piazza, il vero centro di una comunità, un servizio medico, una sede staccata di uffici comunali, un giardino forse con dei giochi, un sottopasso ferroviario che li avvicini a Gardolo. Il Comune per anni garantisce attenzione, promette a man bassa ed infine, dopo una serie di incontri vivaci con la circoscrizione, presenta sulla carta le "promesse esecutive": un palazzo che sta a Roncafort come il colosseo a Manhattan, una piazzettuccina chiusa verso il paese e dall’accesso difficoltoso, un giardino "prendere o lasciare" che perde metri quadrati assemblea dopo assemblea e altre piccolezze.
L’irritazione spinge i presenti ad abbandonare la sala: loro di promesse comunali ben s’intendono e ne diffidano da quando la richiestina di un sottopasso ferroviario leggero da 140-160 metri per favorire la mobilità dei residenti verso Gardolo e Canova viene generosamente accolta dal comune ed ecco là un sovrappasso gigante di 514 metri per 14 di larghezza, 10 di altezza su cui passa buona parte del traffico diretto verso Lavis.
Lo scontro è tuttora in corso. "Il gruppo" mette in moto iniziative per i giovani, cerca di recuperare usi e tradizioni dimenticate, di difendere il territorio dallo spreco e sviluppare senso di appartenenza per tutti i residenti. Partecipando però ad un’assemblea si scorgono solo facce, poche, di trenta-quarantenni e scorrendo la lista del direttivo si notano soltanto cognomi locali, nonostante i "foresti" siano ormai i due terzi. Un segno chiaro: i Roncaforti del 2000 sentono ben poco il richiamo della frazione ed hanno il loro centro d’interessi altrove.
Nel frattempo, su quel che resta dei trecento ettari, si progetta il futuro: un termodemolitore, lo scalo ferroviario (11 binari e sei milioni di tonnellate merci l’anno), forse il deposito regionale carburanti e quello dell’Atesina, più avanti l’alta velocità Monaco-Verona, una nuova serie di capannoni artigianali alle spalle del centro ed un’altra lungo la tangenziale fino all’ex dogana, altri edifici dell’onnipotente Itea per dar casa all’indotto… e chissà quali altre necessità verranno inventate da qui a vent’anni per "valorizzare" l’area fino all’ultimo metro.
Intanto il prezzo delle aree libere sale: l’ultima è stata venduta a 500.000 a metro quadrato, mentre si vocifera, con nome e cognome, della richiesta di un miliardo per mille metri: al rifiuto dell’acquirente, il proprietario con un’alzata di spalle lo ha congedato con un: "Lo lasci lì.. tanto me li darà un altro". Così, tra quanti rimpiangono la Roncafort agricola dei pionieri e quanti se la venderebbero tutta per un milione al metro, tra quanti fanno promesse a richiesta e quanti si accontenterebbero di un po’ di attenzione, gli abitanti vecchi e futuri della piccola frazione stanno entrando nel mondo globalizzato del cemento e dell’asfalto, degli inceneritori ipertecnologici e dei supertreni da 400 all’ora, del commercio all’ultimo sconto e del lavoro interinale, dell’inquinamento e dello stress.
Si potrà mai negare, a loro come agli altri abitanti delle mille Roncafort d’Italia e del mondo, il diritto a rifarsi nel corpo e nello spirito magari con una bella sciata tra i pezi della val Jumela o di fare un weekendino a Maiorca partendo comodamente dal Caproni o di raggiungere, in un’oretta di comoda PiRuBi (Dellai: "La PiRuBi non è un tabù"!) il mare di Venezia?