Collaboratori di giustizia o delatori prezzolati?
Il pentito, come ogni disertore, può essere nobile o ignobile; ma è sempre un vantaggio per la parte che lo accoglie.
Il procuratore generale presso la Corte di Cassazione dr. Antonio La Torre, nell’ inaugurare l’ anno giudiziario il 12 gennaio 2000 con un discorso ampiamente condivisibile sui problemi e sulle riforme in cantiere avviate dal Parlamento e dal Governo, ha avuto parole molto dure sui collaboratori di giustizia, o "pentiti" come si usa dire. Egli ha definito il pentitismo un "male necessario", e ha aggiunto che "un apparato di giustizia che fa appello alla delazione prezzolata di losche figure mette in gioco la sua valenza etica e il suo tasso di credibilità". E’ stato per altro costretto ad ammettere che "molte volte la verità è stata raggiunta grazie alle dichiarazioni dei pentiti: nel qual caso l’ utilità del fine riscatta la discutibilità del mezzo".
Probabilmente senza accorgersene, il dr. La Torre ha applicato il principio secondo cui "il fine giustifica i mezzi" , che invece non è accettabile né giuridicamente né politicamente. O anche il mezzo è in sé buono, oppure nessun fine per quanto nobile può giustificarlo. Più rigorosamente si dovrebbe dire che nessun mezzo è in sé buono o cattivo: solo colui che lo utilizza può volgerlo al bene o al male. Il coltello infatti può essere usato sia dal chirurgo sia dall’ omicida. In questo caso il giudizio di valore non cade sul coltello, ma sull’omicida o sul chirurgo.
Ho l’ impressione che l’ opinione pubblica in generale e gli stessi specialisti (compreso il dr. La Torre, di cui ho grande considerazione) non abbiano idee sufficientemente chiare sui pentiti. Bisogna prima di tutto liberare il concetto da nebbie ed equivoci. Il pentito può essere correttamente paragonato, specie nei processi di mafia, a un nemico che si arrende o che diserta e addirittura collabora con chi lo ha catturato. E’ chiaro che ci sono disertori nobili ed ignobili. C’ è chi lo fa per un ideale, e chi invece per interesse (vigliaccheria, desiderio di salvare la pelle, ecc.). Cesare Battisti, che fu condannato e impiccato dagli austriaci secondo le leggi vigenti, era certamente un disertore nobile. Ma ciò, a ben guardare, attiene alla soggettività del disertore che può essere buono o cattivo, così come la soggettività del "pentito" può essere a volte disgustosa, anzi orribile. Oggettivamente invece il disertore, e così il pentito, è sempre un vantaggio per la parte che lo accoglie: è cioè una utilità, che sul piano etico diventa un bene. Non è quindi esatto definire i pentiti un "male necessario", che è soltanto un modo di dire che ingenera confusione.
Comunque l’ importante è intendersi. I pentiti sono uno strumento indispensabile per ogni apparato di giustizia (ne fanno largo uso anche gli Stati Uniti) e il giudizio valutativo sullo strumento non può che essere positivo. La loro utilità si manifesta soprattutto nei processi di mafia. Recentemente il dr. Caselli, in un bell’ articolo apparso su Repubblica, faceva notare che i processi di mafia non sono uguali agli altri. Nel caso di un omicidio, per esempio, accade che non ci sia neppure il cadavere (che viene cementificato o sciolto nell’acido), con la conseguenza di rendere impossibili le perizie necroscopiche, evitando i riscontri e gli elementi di prova che da essi conseguono. Oltre al cadavere scompare molto spesso anche il killer, che viene a sua volta ucciso perché non parli, oppure spedito in America con un aereo mezz’ora dopo il delitto. L’ arma usata non subisce sorte migliore: o viene distrutta o viene modificata nelle sue caratteristiche, in modo da rendere inutili le perizie balistiche.
Quanto ai testimoni dei processi di mafia, vale la regola "non vedo, non sento, non parlo". Infine la storia della mafia conosce la pratica di "aggiustare" i processi, nei quali c’ è qualche elemento di prova, attraverso la corruzione diretta o la intimidazione dei giudici, togati e popolari. Non stupisce quindi che, almeno fino a dieci anni fa, le sentenze di mafia fossero come regola di assoluzione, sia pure per insufficienza di prove.
La svolta decisiva è stata data dai pentiti e dalla legge approvata dal parlamento dopo l’ assassinio di Falcone e Borsellino. Essendo la mafia una società segreta, protetta dall’ omertà e praticamente impermeabile alle indagini, il pentito che diserta e collabora (qualunque siano i motivi che lo spingono) diventa un nemico pericolosissimo perché squarcia il velame, rivela l’ organizzazione interna, fa luce su delitti che altrimenti resterebbero per sempre misteriosi. E’ questa la ragione principale per cui la mafia quando, in relazione a un fatto criminoso, si profila un pentito, fa di tutto per minacciarlo, corromperlo, blandirlo, e perfino manovrarlo per depistare le indagini.
Se ogni mezzo risulta vano, la mafia non esita ad uccidere il pentito pur di coprire i segreti dell’organizzazione. E’ chiaro dunque che nei processi di mafia la formazione della prova è molto più difficile che negli altri processi di ordinaria criminalità, e che il "pentito" acquista oggettivamente un ruolo essenziale.
E’ ovvio che le dichiarazioni dei pentiti devono essere vagliate "con estrema cautela", come scrive il dr. Caselli, con scrupolo e diffidenza tecnica ai massimi livelli non solo perché il pentito può essere mendace, ma perchè può addirittura essere manovrato dalla mafia svolgendo la funzione di "infiltrato" negli organi dello Stato. Se dunque sono necessarie la massima cautela e la "riscontrabilità" delle dichiarazioni, sono invece da respingere la sfiducia pregiudiziale e la delegittimazione sistematica (che arriva all’ insulto).
E'molto facile, ma demagogico, definire indistintamente i pentiti come "loschi figuri e delatori prezzolati" : ma ciò non corrisponde al vero. Lo stesso Procuratore generale dr. La Torre lo ha esplicitamente ammesso affermando che "molte volte la verità è stata raggiunta grazie alle dichiarazioni dei pentiti". Non bisogna dimenticare che collaborare con la giustizia contro la mafiapuò significare condannare a morte sé e i propri famigliari.
Nello scritto citato il dr. Caselli ricordava: "Lo provano le decine e decine di persone che la mafia ha ucciso per intimidazione e rappresaglia, dai parenti di Buscetta e di Marino Mannoia fino al tredicenne Giuseppe Di Matteo (sequestrato e ammazzato solo perché figlio di suo padre) e al settantenne Girolamo La Barbera (suicidato solo perché è padre di suo figlio)".
Se dunque i pentiti non vanno prioristicamente delegittimati e insultati, resta il problema della loro corretta utilizzazione. A tal fine è necessario correggere "difetti, lacune e incongruenze" che la legge Falcone-Borsellino (chiamiamola così in loro onore) ha rivelato in questi sette anni, durante i quali ha ottenuto risultati eccezionali.
Si tratta essenzialmente di impedire contatti fra i pentiti, in modo che le dichiarazioni non siano concordate e siano invece il più possibile genuine e autonome; di abbreviare i termini in cui è possibile rendere confessioni collaborative e chiamate di correo, di obbligare i pentiti, che hanno accusato altre persone durante le indagini , a parlare al dibattimento sottoponendosi al contraddittorio, sotto pena di sanzioni pari almeno a quelle che subiscono i testimoni falsi o reticenti.
L’augurio è che il Parlamento faccia presto, anche per porre fine alla delegittimazione continua dei pentiti che giova solo alla mafia e agli imputati "eccellenti".