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Nanni Balestrini: la modernità come conflitto

Nanni Balestrini, La grande rivolta (Vogliamo tutto. Gli invisibili. L’editore). Bompiani, 1999, pp.355 , £.32.000.

Per quelli della mia generazione il nome di Balestrini è uno di quelli ben noti. Nelle biblioteche personali degli studenti contestatori degli anni ’70 non poteva mancare una copia dell’edizione Universale Economica Feltrinelli di "Vogliamo tutto". Un romanzo "rivoluzionario", che ha avuto un vasto eco perché è caduto al posto giusto nel momento giusto, irrompendo nel 1971, col suo parlare di lotte operaie alla Fiat, sulla scena di una letteratura italiana in cui la spinta propulsiva al rinnovamento della neoavanguardia del Gruppo 63 (di cui Balestrini era stato uno dei fondatori) si era come svuotata dall’interno di fronte alla grande ondata di lotte sociali e politiche che dal ’68 studentesco e dal ‘69 operaio avevano preso le mosse, rimettendo in discussione ogni acquisizione culturale anche d’avanguardia, e semplicemente ignorando la letteratura. Ma non "Vogliamo tutto", che invece è stato subito assunto dal "movimento" come un proprio scritto, parente povero (secondo l’ottica rovesciata di allora) delle tonnellate di volantini che venivano quotidianamente riversati sui cancelli della Fiat e delle altre fabbriche italiane del periodo.

Il rapporto con il volantino non è poi così gratuito come si potrebbe pensare oggi. Il romanzo sembra quasi nato da una lunga seduta autobiografica davanti al registratore di Alfonso, uno dei quadri di Potere Operaiodentro la Fiat dell’autunno caldo ’69, a cui il romanzo è ispirato e dedicato. Da lì proviene - ripreso con scrupolosità sociologica - il linguaggio. Un linguaggio sporco ed approssimativo, crudo e violento, da strada, o meglio da "officina in lotta". Ma l’operazione in realtà è naturalmente anche molto "colta" e dà a Balestrini – che insieme al Gruppo 63 aveva teorizzato e praticato una frammentazione espressionistica del linguaggio, un riciclo in campo artistico di materiali linguistici "bassi" e documentari, insieme ad innesti e montaggi ispirati alla tecnica visiva del collage - l’occasione di spendere questo suo background avanguardistico nel campo dei suoi ormai sempre più forti interessi politici, con il confezionamento di un romanzo/saggio-sociologico/discorso [anti] sindacale/slogan. E volantino, appunto.

Con "Vogliamo tutto" nasce anche la struttura stilistica fondamentale della narrativa di Balestrini : quella per "lasse", cioè per lunghi paragrafi. Delle unità timbriche oltre che narrative, compatte al loro interno e segmentate fra di loro come se fossero dettate da un convulso, incalzante, parlare tutto d’un fiato, che ogni tanto deve pur prendere il respiro. Il risultato è stato un libro che ha reso perfettamente uno dei luoghi centrali degli anni ’70 (anche se ridotto al giorno d’oggi ad un sito archeologico): la lotta operaia. Venendone allora subito adottato, così da rappresentare uno dei punti di massima socializzazione della cultura operaista di estrema sinistra del tempo, e fungendo ancor oggi da punto di passaggio inevitabile per chi - per qualunque ragione - volesse andar a rivisitare soprattutto il clima conflittuale di quegli anni.

Un nome ben noto dunque, quello di Balestrini, negli ambienti politico-culturali degli anni ’70, ma certo la massima celebrità l’ha raggiunta nel corso dell’inchiesta del 7 aprile 1979 sull’area dell’autonomia e sui suoi rapporti con il terrorismo. Balestrini era stato sempre anche uno straordinario animatore di riviste, da Il Verri dove aveva iniziato la sua attività pubblicistica, all’importantissima Quindici, una delle testate fiancheggiatrici del Gruppo 63. Nel 1979 Balestrini fondava un’altra rivista fondamentale, Alfabeta, un tentativo di leggere in una prospettiva interdisciplinare le molte tensioni culturali della fine di un decennio ribollente. Il giorno in cui il primo numero avrebbe dovuto venir presentato a Milano, alla Villa Reale di via Palestro, La Repubblica intitolava, a caratteri cubitali: "Balestrini latitante". "Sapemmo poi che era fuggito in Francia - ha ricordato la allora redattrice di Alfabeta Maria Corti, in un bell’articolo su La Repubblica (del 17/4/1999) - e che avremmo avuto un direttore clandestino, che tuttavia continuò a dirigere da lontano la sua prediletta rivista".

Balestrini uscì poi, cinque anni dopo, scagionato dal relativo processo, in cui era stato coinvolto per i suoi trascorsi di militante di Potere Operaio, ma la latitanza in Francia ha segnato una profonda svolta nel tono della sua opera. Anche perché è venuta a coincidere con la fine del ciclo economicamente e socialmente espansivo iniziato con la modernizzazione legata al boom economico dei primi ’60, ed esauritosi con la stagione delle lotte sociali sfociate nel terrorismo, che ha mandato tutti a casa, e Balestrini in Francia. E fu riflusso, edonismo reaganiano, Milano-da-bere, etc.

Balestrini ha vissuto l’esilio in Francia "come la fine di un periodo straordinario – ha detto in una intervista al settimanale Sette (1999, n.19) - e con il tempo di ripensarlo e anche di scriverci su qualche libro". Lo sguardo dello scrittore infatti non è più quello in "presa diretta" su di una realtà in tumultuosa trasformazione. Disgustato dal presente degli anni ’80 - che in alcune corrosive interviste a quotidiani italiani definisce "il tempo dei grandi sarti"- il suo diventa uno sguardo rivolto al passato, non preda di una senile nostalgia, ma dominato invece da un’amara inquietudine che lo porta ad interrogarsi continuamente sul senso di quello che è stato, su come una grande ondata di trasformazioni globali ha potuto ridursi all’encefalogramma piatto dell’epoca dei sarti. Ed a rivisitare con il suo proprio strumento di conoscenza, la letteratura, luoghi che erano stati quelli del movimento e destini individuali di chi ne era stato contaminato e segnato.

Nel 1987 esce il romanzo "Gli invisibili", dedicato alla generazione del terrorismo. Anche qui il riferimento è ad una storia reale, in carne ed ossa, quella di Sergio un pesce piccolissimo del terrorismo, del quale racconta la vita di carcerato, intrecciata con flash-back sulla sua storia precedente, quella che in un certo modo anche abbastanza inconsapevolmente - e comunque con un gioco del destino da tragedia greca - lo ha fatto finire in un carcere di massima sicurezza. Sergio è una figura assolutamente tipica di quegli anni, la storia dei quali porta impressa negli esiti della propria vita in modo indelebile. Prima insofferente, poco convinto, studente, poi, presto, marginale consapevolmente ribelle che attraversa - senza intravedere altre possibilità - le esperienze più estreme di quegli anni, dai circoli del "proletariato giovanile" ai lavori precari, alla lotta - già condotta con mezzi illegali - contro il lavoro nero, e così via fino a farsi trovare armi in casa e finire per terrorismo in carcere. Dove incappa nientemeno che nella rivolta di Trani del dicembre 1980, uscendone con ossa rotte e prospettive di vita azzerate. Un invisibile, destinato a marcire nelle patrie galere, che per tentare qualche forma di comunicazione con un mondo esterno sempre più sfuggente - anche la morosa degli anni del movimento, dopo un’ultima visita in look da anni ’80 con tanto di spalline spaziali, ovviamente sparisce - deve ricorrere ad esporre fiaccole alle finestre del carcere: "doveva essere un bello spettacolo da fuori tutti quei fuochi tremolanti sul muro del carcere in mezzo a quella distesa sconfinata ma gli unici che potevano vedere la fiaccolata erano i pochi automobilisti che sfrecciavano piccoli lontanissimi sul nastro nero dell’autostrada a qualche chilometro dal carcere".

La scrittura de "Gli invisibili" sviluppa quella di "Vogliamo tutto", rendendo ancora più compatte le lasse, da cui scompare ogni

forma di punteggiatura. Ma il linguaggio si fa cupo, teso, gergale e diretto ma privo di qualunque sguaiataggine. Un linguaggio doloroso adatto ad esprimere la sofferenza sia di chi sta in carcere, sia di chi è rimasto fuori, ma solo per trovarsi in un carcere più grande, in un presente per nulla amato, a tirare avanti controcorrente senza più alcuna direzione precisa. E’ comunque una scrittura partecipe ma razionalmente distaccata, sempre vigile, senza abbandoni emotivi.

Qualcosa del genere comincia invece a trapelare - ma in modo molto particolare, sempre avanguardistico e ostico a qualunque sentimentalismo – in "L’editore", il romanzo che Balestrini dedica nel 1989 alla morte violenta di Giangiacomo Feltrinelli (saltato in aria nel 1972 per errore mentre stava preparando un attentato terroristico), e a tutto quello che gli è ruotato intorno sotto forma di radicalizzazione della situazione politica, di scelte nette e laceranti anche a livello esistenziale, insomma agli inizi degli anni di piombo.

Qualcosa di nuovo comincia qui a comparire nella scrittura di Balestrini a livello di architettura complessiva del testo. Non più una semplice seduta autobiografica davanti al registratore, ma una forma più complessa, che ha portato il critico Remo Ceserani a chiedersi "se Balestrini non si sia per caso spostato dai modi di scrittura della modernità avanguardistica, che gli sono propri, a quelli del postmoderno. La messa in scena di un gruppo di personaggi che preparano una sceneggiatura cinematografica sul caso [Feltrinelli] e discutono fra loro sulle modalità della narrazione, l’interferenza continua tra le vicende dei personaggi contemporanei e quelle della storia passata di ciascuno; il montaggio disorientante di brani narrativi, cronache di giornali, testi dei media; l’utilizzazione, a supporto di una vicenda d’amore fra due dei protagonisti, di citazioni da un riferimento (un "sottotesto") letterario, ‘Sotto il vulcano’ di Lowry: questi procedimenti possono far pensare a un’adozione dei modi del postmoderno".

Certo è che nel romanzo su Feltrinelli la nuova sofisticazione architettonica del testo, diviso in quadri come una sceneggiatura più che cinematografica da reportage televisivo, l’andamento da puzzle non completo su di una verità forse inconoscibile – questo rigoroso "gioco" stilistico – ha il fine di tenere a sufficiente distanza il punto di osservazione e neutralizzare le interferenze emozionali che nascono dalla rivisitazione di un passato ancora lacerante "perché gente come il biondo - recita un brano della "scena X" - non può più tornare indietro da quella vicenda che nel 79 si rompe allora tutto si rompe tutto si è rotto però per rompere tutto occorre l’unione di tutti i partiti occorrono le forze armate occorre la magistratura occorrono tutti i mass media non è mai successo in uno stato moderno che ci voglia tutto questo spiegamento di forze per far fuori quella che viene definita una minoranza che invece era una maggioranza sociale in movimento di trasformazione di cui una parte ha subito una radicale modificazione antropologica come percezione del mondo delle emozioni del sesso della cultura del rapporto col denaro e quindi adesso se non sono impazziti restano ai margini o si appassionano per qualcosa che li riporta al loro passato come il biondo che è così appassionato adesso per l’idea di questo film".

Questo passo è forse quello in cui più si esplicita quanto un altro critico, Giuliano Gramigna, ha definito il "programma narrativo" di Balestrini: "Dal romanzo del soggetto-massa al romanzo di un immaginario collettivo". A differenza degli altri due, questo è proprio un libro sul passato, anzi sulla sua rivisitazione col senno di poi. Una ricerca di senso sull’esperienza della generazione degli anni ’60, e quindi più collettivo - nonostante le apparenze - degli altri due. Per gli altri due il coinvolgimento dell’autore era ideologico, qui invece nel destino generazionale Balestrini è chiamato in causa direttamente (come il lettore, o un "certo" lettore quanto meno). E la mano si fa meno ferma quindi, lo sguardo si allunga. Si spegne il registratore dell’inchiesta sociologica e si sintonizzano le antenne di una percezione storica ed esistenziale più profonda. Da bilanci finali.

Questi tre testi insomma, portando avanti una ricerca coerente attraverso due decenni, finiscono per diventare un unico ciclo dedicato al pieno dispiegarsi di una matura modernità neocapitalistica nell’Italia degli anni ’60, con tutto il suo strascico di conflitti – ma la modernità è appunto, a differenza del postmoderno, conflitto permanente con l’esistente - ed al suo repentino declinare negli anni ’70. E così, come ciclo, ce li ripresenta ora l’editore Bompiani, sotto il titolo unitario di "La Grande Rivolta". Una edizione che li consacra fra i classici del secolo appena terminato (fornita anche d’una appendice con antologia della critica, da cui sono presi i passi citati in questo articolo), e che significativamente è curata da Aldo Nove, uno fra i più attivi degli scrittori dell’ultima generazione - quella degli anni ’90 - forse il più tipico di quella pattuglia che la critica ha chiamato, dal titolo di una antologia, "i nuovi cannibali". Cannibali per la carica di violenza e gratuita demenzialità che usano nelle loro opere per disarticolare la realtà televisivo-sartoriale verso la quale esprimono un fastidio non minore di quello di Balestrini (certo, un po’ diverso), e nella quale inglobano anche i miti letterari degli anni ’80, con la loro infatuazione per il supremo criterio della leggibilità.

Nelle note di copertina, Nove saluta invece Balestrini come un grande padre dei bad boys di oggi, uno che "con furore logico… ha segnato tra gli anni Sessanta e il finire della ‘grande stagione dell’intelligenza’, la distanza tra la consolazione delle lettere e il linguaggio, i linguaggi di chi non vuole, non ha voluto consolarsi nelle lusinghe dell’esistente".

Un nome noto quello di Balestrini per la mia generazione - si diceva all’inizio. Fa piacere constatare che lo è anche fra i maestri del pensiero dell’ultima generazione, e questa edizione può essere l’occasione per farlo scoprire al pubblico più giovane, quello nato dopo il diluvio.

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