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“Giusto processo”? Dissento

Il voto del Parlamento ribadisce una ovvietà che però rischia di avere pesanti ripercussioni.

Con il voto del 10 novembre il Parlamento ha definitivamente inserito nell’art. 111 della Costituzione la norma denominata del "giusto processo". L’approvazione è stata quasi unanime: 522 sì e 6 no. Quando il tabellone luminoso di Montecitorio ha annunciato il risultato, gli onorevoli di Forza Italia si sono alzati in piedi applaudendo, e Berlusconi ha dichiarato: "E’ una vittoria nostra, come dimostra il fatto che solo noi siamo scattati in piedi ad applaudire come un sol uomo, come un solo deputato". Qualcuno ha ironicamente commentato: "come un solo imputato".

In effetti l’approvazione della nuova norma avrà come probabile conseguenza quella di paralizzare o di annullare i processi di mafia e di corruzione.

Si spiega l’entusiasmo di Berlusconi, di Previti e di Dell’Utri. Non si capisce - almeno io non capisco - il voto favorevole del centro-sinistra e di Alleanza Nazionale, né il coro di consensi che ha accompagnato l’evento. Pochissime sono state le voci critiche. In democrazia è vitale rispettare il Parlamento (guai se così non fosse), ma altrettanto vitale è criticarlo liberamente. Nel caso di specie io dissento radicalmente dalla recente decisione. Secondo me la nuova norma è inutile e pericolosa ad un tempo. Dal punto di vista della tecnica giuridica dovrebbe far arrossire un giovane appena laureato in Giurisprudenza. I nostri padri costituenti certo si rivoltano nella tomba. Non ha infatti alcun senso costituzionalizzare il concetto di "giusto processo". E’ evidente che il processo deve essere giusto per antonomasia, altrimenti non è un processo ma un’altra cosa: un atto politico, una vendetta, una commedia, eccetera. L’espressione "giusto processo" è quindi un’enfasi inutile, ammissibile in un’arringa o in un comizio, ma non in un testo costituzionale. Le stesse considerazione valgono per quanto riguarda il giudice che secondo la nuova dizione deve essere "terzo ed imparziale": si può forse auspicare il contrario? Che il giudice sia di parte e magari corrotto?

Del tutto superfluo infine ribadire che il processo si basa sul contraddittorio fra accusa e difesa su posizioni di parità (come già è scritto nel Codice di procedura penale del 1989!): ci mancherebbe altro che il processo fosse un monologo dell’accusa.

Perché dunque l’entusiasmo di Forza Italia e di altri per delle formulazioni ovvie che irrigidiscono inutilmente il testo costituzionale? Credo che due siano i motivi essenziali. Primo: rimane al momento in vigore l’assurdo diritto del "pentito" (che è un imputato-testimone) di tacere al dibattimento, con la conseguenza di rendere nulle le dichiarazioni accusatorie fatte al Pubblico Ministero durante la fase delle indagini, azzerando così il processo. E’ chiaro che la strada da battere era ed è opposta: obbligare il "pentito" a rispondere anche in udienza, rendendo così effettivo il contraddittorio e garantendo l’efficienza del processo.

Poiché il nuovo testo costituzionale entra in vigore subito, anche per i processi in corso, è fatale che quelli dove non sia stata applicata la nuova norma (in particolare i processi contro la mafia e la corruzione) debbano essere rifatti o incappino in eccezioni di incostituzionalità che aprono la porta alla prescrizione.

Secondo: la nuova norma prescrive che la persona accusata di un reato sia, nel più breve tempo possibile, informata riservatamente della natura e dei motivi dell’accusa.

Che significa "nel più breve tempo possibile"? Il Procuratore della Repubblica di Milano ha osservato che l’ambiguità della norma è "pericolosissima" se dovesse intendersi, come pare, che la persona interessata deve essere avvertita nel momento stesso in cui le indagini hanno inizio. In tal caso, D’Ambrosio ha dichiarato testualmente: "E’ la fine delle indagini sulla corruzione e la mafia". Non è possibile dargli torto.

Per fortuna non tutto è perduto, nonostante la "frittata" fatta dal Parlamento. La nuova norma costituzionale lascia infatti aperta la strada della legge ordinaria, sia per obbligare il "pentito" a rispondere anche al dibattimento, sia per calibrare l’immediata applicazione del nuovo art.111 della Costituzione ai processi in corso con norme transitorie e di applicazione che evitino eccezioni di incostituzionalità, annullamenti e prescrizioni.

Sarà una difficile corsa a ostacoli e contro il tempo. Per evitare le gravissime conseguenze che ho sopra indicato, bisognerebbe che il Parlamento riuscisse a varare la legge ordinaria (diciotto articoli che ora sono in commissione) in modo che possa essere pubblicata su "La Gazzetta Ufficiale" contemporaneamente al nuovo art. 111 della Costituzione. Un’impresa quasi disperata, che fa sperare i boss mafiosi, i grandi corruttori e i ladri di sentenze.

Carlo Federico Grosso, già vice-presidente del Consiglio Superiore della Magistratura, così ha commentato con tono profetico la drammatica situazione determinata dal voto del Parlamento: "Guai se, enunciato il sacrosanto diritto di chi è accusato da un pentito di interrogarlo nel corso del dibattimento, si legittimasse il pentito a sottrarsi al contraddittorio, facendo in questo modo sfumare elementi di prova faticosamente acquisiti nel corso dell’indagine preliminare. Mi auguro soprattutto che al riconoscimento del diritto ad interrogare l’accusatore si accompagni la decisione di rendere obbligatorio il contraddittorio in aula, colpendo colui che si sottrae a tale obbligo con sanzioni adeguate, e che questo obbligo sia chiaramente imposto a tutti. Altrimenti la riforma rischierebbe di trasformarsi nei fatti in una sorta di truffa delle etichette".

E’ superfluo ogni ulteriore commento.

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