Siciliani, figli del Caos
Venticinquemilaquattrocentosessanta chilometri quadrati di superficie, milletrentanove chilometri di costa, la Sicilia, questo triangolo, quest’isola in mezzo al Mediterraneo è quanto fisicamente di più vario possa in sé raccogliere una piccola terra. Un vasto campionario di terreni, argille, lave, tufi, rocce, gessi, minerali… E montagne, vulcani, altipiani carsici, conche, colline, cave, pianure, depressioni. E quindi varietà di colture, boschi, giardini, uliveti, vigne, seminativi, pascoli, sabbie, distese desertiche. In questa terra sembra che la natura abbia subìto come un arresto nella sua evoluzione, si sia come cristallizzata nel passaggio dal caos primordiale all’amalgama, all’uniformazione, alla serena ricomposizione, alla benigna quiete. Sì, crediamo che tutta la Sicilia sia rimasta per sempre quel caos fisico come quella campagna di Grigenti in cui vide la luce Pirandello
‘Io dunque son figlio del Caos; e non allegoricamente, ma in giusta realtà, perché son nato in una nostra campagna, che trovasi presso a un intricato bosco denominato, in forma dialettale, Càvusu dagli abitanti di Grigenti, corruzione dialettale del genuino e antico vocabolo greco Kàos …’
E'come Pirandello, ogni siciliano credo possa dire "son figlio del Caos". È il caos prima della formazione del cosmo, la materia informe, la "mescolanza di cose frammiste" di cui parla Empedocle (anch’egli nato nel "caos" d’Agrigento). Ora qui, per inciso, vogliamo notare che la storia, la storia siciliana, abbia come voluto imitare la natura: un’infinità, un campionario di razze, di civiltà sono passate per l’isola senza trovare mai una loro amalgama, fusione, composizione, ma lasciando ognuna i suoi segni, qua e là, diversi, distinti dagli altri e in conflitto: da qui, forse, tutto il malessere, tutta l’infelicità storica della Sicilia, il modo difficile d’essere uomo di quell’isola, e lo smarrimento del siciliano, e il suo sforzo continuo della ricerca d’identità.
Vincenzo Consolo, "Di qua dal faro", pp. 9-10.