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QT n. 10, 15 maggio 1999 Servizi

La storia non è una scienza esatta

La dialettica tra pacifisti e realisti.

E’ radicale l’accusa di Giuliano Pontara a tutti i politici d’oggi: il loro modo di pensare, che per risolvere le controversie si affida ancora alla forza, è antiquato, in un’epoca storica in cui le armi, nucleari, biologiche, chimiche, hanno una potenza distruttiva mai vista, e la guerra diventa irrazionale, mezzo inadatto allo scopo che vuole raggiungere. Perché i popoli non pongono alla testa degli Stati governanti pacifisti? Capaci, aggiunge Luca Riccardi, di adottare la "trattativa ad oltranza", di rifiutare la tentazione di ultimatum che, come quello di Rambouillet, si rivelano poi irreparabili?

L’obiezione di Riccardo Scartezzini, condivisa da Giuseppe Nesi e Mario Raffaelli, ma anche da Rodolfo Ragionieri, è che, invece, l’ultimatum è parte integrante della trattativa: l’organismo sopranazionale, legittimato a risolvere conflitti fra Stati, deve poter disporre, in ultima istanza, della forza per imporre una soluzione, per ridurre le stragi cui, in questa fase della storia, le tribù degli uomini ancora si adattano.

Questo è il problema di fondo, antropologico e storico, attorno a cui in tanti ci arrovelliamo. Utopisti acchiappanuvole i pacifisti assoluti? Cinici realisti i loro contraddittori? Fiduciosi i primi solo nella diplomazia popolare dal basso, fiduciosi i secondi che le istituzioni, l’Onu, la Nato, i governi, sappiano usare, spontaneamente, con angoscia e prudenza, il minimo di forza opportuna? Al convegno di Trento, non è necessario scriverlo, e più in generale chi parla pensosamente in questi giorni drammatici, nessuno sostiene la Nato e Milosevic: le loro azioni paiono, eticamente e politicamente, indifendibili.

La dialettica fra il pacifismo antropologico e teleologico da una parte, e quello politico e istituzionale dall’altra, a me pare necessaria e positiva. E’ bene che ognuno pensi, parli, scriva, ed operi, dentro la posizione che ha maturato, ma dialogando con chi gli è vicino e diverso. Anche con chi ci è lontano. E’ oltretutto il modo per chiamare alla politica l’indifferente, il confrontarsi con serietà. E nulla, è terribile dirlo, fornisce occasioni più serie di discussione che una guerra. Che ha fatto quasi scomparire, per qualche giorno, il chiacchiericcio politico sui media.

La politica, e la storia, non sono scienze esatte: nessun argomento è quello definitivo. Non sappiamo ancora bene, oggi, di chi fu la responsabilità prevalente nello scoppio della prima guerra mondiale. E nella guerra più giusta del ventesimo secolo, quella che sconfisse il nazifascismo, sappiamo che fu necessario lo sbarco in Normandia, ma abbiamo anche saputo, poi, che le bombe atomiche non erano indispensabili. E che, più che a chiudere quella guerra, servirono ad inaugurarne un’altra, quella fredda fra Usa e Urss.

Per questo possiamo avere le idee confuse sulla tragedia di oggi, e su noi stessi, che pur vogliamo la pace. Studiare la storia ci costringe a moltiplicare le cause e le spiegazioni, a modificarle, a gerarchizzarle in modo sempre diverso. Chi semplifica ci fa forse invidia, ma non ci accontenta.

Al convegno interviene - mi è seduto vicino - un marxista che sa spiegare tutto con la chiave dell’imperialismo americano malvagio. Che esiste, e non è buono: ma così non avremo mai pace, né in Kossovo, né in Sudan, né altrove, finché non avremo abbattuto il capitalismo. Lo dice, l’amico, sicuro, e mi sconforta, e ci induce al disimpegno.

Le questioni nazionali, etniche, religiose, non sono uno scherzo, né un imbroglio di qualche cattivo: affondano in radici lontane. Le identità, tutte, ci sono necessarie per ridurre le nostre insicurezze: per questo si formano, si trasformano, muoiono, rinascono, si inventano anche in momenti di crisi.

E il processo di globalizzazione è un momento di crisi che abbisogna di nuove identità. Gli studenti a cui insegno sentono innanzitutto di appartenere a Scurelle, a Zambana, a Brentonico. E’ difficile sentirsi italiani, europei, cittadini del mondo, e non rinunciare alla propria identità di paese, costruendola anzi, se fosse carente. Siamo sempre più chiamati a un’identità plurale, per capire il mondo che cambia, le sue guerre, e le emigrazioni. Qualche ragazzo mi dice che il mediatore fra culture diverse, a scuola, è un costo e uno spreco, e lo dice dopo aver letto QT.

Come l’albanese al convegno: dopo aver ascoltato per un giorno interventi di pacifisti italiani, la sera è ancora sostenitore convinto dell’indipendenza del Kossovo, cioè della guerra ad oltranza. Un amico di Praga era triste quando Slovacchia e Repubblica Ceca si separarono: lui si sentiva ormai cecoslovacco, ma per altri, i più, purtroppo, non era così. La tentazione a rinchiudersi, ad isolarsi, è forte, quasi quanto quella di imporre le proprie soluzioni.

John Dewey, il grande pedagogista americano, si impegnò perché gli Stati Uniti intervenissero nella prima guerra mondiale, per dare al mondo una risposta di pace e di democrazia. Fu tale la sua delusione per l’esito di quella guerra, che vent’anni dopo fu accanito oppositore dell’intervento americano: e si trattava di combattere il nazismo di Hitler! Su quale Dewey ci piace riflettere oggi?

Le identità nuove sono difficili da costruire, e c’è il rischio persino di perdere, regressivamente, le antiche. Erich Hobsbawm teme che fra vent’anni possano essere scomparse la Gran Bretagna, la Spagna, l’Italia. Sarebbe un disastro, mentre dobbiamo costruire l’Europa. I processi di unificazione e diversificazione sono complementari: la politica è uno spazio convesso, meno stabile di quello concavo e caldo delle case più piccole, che però non ci bastano.