Pulizia etnica: cose da slavi?
Anche le nostre Alpi hanno rischiato di essere “pulite” da “contaminazioni” di razza e di religione.
E’ riaffiorata, in questi mesi di guerra e di esodi, la consuetudine di parlare dei Balcani come di un mondo destinato a feroci conflitti interni e focolaio di tragedie continentali. L’assenza di memoria ci fa vivere, quasi con compiaciuto confronto, un civile, tollerante mondo alpino contrapposto ad una barbara terra balcanica. Eppure sono passati solo sessant’anni da quando la logica della pulizia etnica ha segnato in maniera drammatica le nostre valli e lasciato ferite solo recentemente rimarginate. Foto, su cui il tempo è riuscito ad apporre solo poca polvere, mostrano, nella vicina valle del Fersina, uomini e donne anticipare nei volti e nelle masserizie raccolte, impressionanti similitudini coi reportage dei nostri telegiornali. In Sud Tirolo, l’accordo tra Hitler e Mussolini per le opzioni indusse la stragrande maggioranza dei tedeschi a scegliere l’abbandono della loro terra e dei loro beni; un esodo bloccato, nelle sue conclusioni finali, solo dalle dinamiche della guerra. Per mocheni e sudtirolesi, la partenza fu meno drammatica di quel che oggi è per gli albanesi del Kossovo, ma la via del rientro fu per quasi tutti tragico e amaro.
L’inizio del secolo, con la prima guerra mondiale, aveva visto proprio le Dolomiti, il Lagorai, gli Altipiani trasformati in crudele teatro di una guerra che vide i Kaiserjaeger pusteresi combattere contro gli Alpini del Cadore, con cui, fino a pochi mesi prima, avevano svolto commerci e pacificamente convissuto.
Fino a metà del secolo scorso nelle vicine valli tirolesi l’intolleranza religiosa ha continuato a provocare persecuzioni. La popolazione protestante fu costretta a emigrare in America, riproponendo la diaspora subìta dai valdesi per quasi quattro secoli nelle valli del Piemonte, su cui regnavano i cattolici bigotti re di Sardegna e il cattolicissimo imperatore d’Austria.
Se dunque la fermezza delle democrazie occidentali non avesse sciolto in modo fermo e drammatico (con la seconda guerra mondiale) il dilemma che aveva paralizzato la sinistra europea tra le due guerre di fronte al quesito "Perché morire per Danzica?", anche le Alpi sarebbero oggi un territorio pulito da ogni contaminazione di razza e di religione. E se dopo la guerra non fosse seguita la lungimiranza del dialogo, della convivenza e dei trattati, anche la nostra regione si sarebbe trasformata - anzi, aveva già cominciato ad essere - una miccia accesa nel cuore dell’Europa.
Molti fili rendono simile, più di quanto si riconosca, la nostra storia a quella della parte sud-orientale d’Europa. L’impero d’Austria si è sfasciato per il coacervo di irredentismi che lo logorarono per tutto il secolo scorso. Ma gli irredentismi prevalsero sulle battaglie per l’autonomia quando le differenze economico-sociali fra le varie regioni dell’impero assunsero proporzioni intollerabili. Quando superarono quel rapporto di 1 a 5 tra il reddito medio di un cittadino trentino rispetto ad uno boemo, un socialista come Cesare Battisti fu indotto a concludere che lo Stato degli Asburgo era irriformabile.
La Jugoslavia si è sfasciata per molte ragioni, ma il dissidio è esploso quando il reddito dei cittadini sloveni divenne di 5 volte più alto di quello dei macedoni e dei kossovari e nessuna politica venne proposta per porre fine a una così drammatica disuguaglianza.
Analogie, ricorsi storici, vuoti d’iniziativa politica dell’Europa si propongono a fine secolo con troppe analogie con quanto accadde al suo inizio; tanto da rendere efficace la definizione del card. Martini, che ha definito il nostro un secolo "inutile".
Si è voluto contrapporre, in queste drammatiche settimane, la logica della fermezza a quella del dialogo e dei trattati, alla necessità di un’incisiva politica di interventi economici. Si è evocato per le regioni jugoslave la necessità di nuovi piani Marshall. Uno sguardo alla storia del secolo fa ritenere che senza fermezza non si fermano i piccoli satrapi, che senza dialogo e trattati non si costruisce la convivenza tra popoli abbacinati da secolari miti nazionali, che i nazionalismi saranno sempre l’uscita di sicurezza per popolazioni frustrate da endemica miseria. E’ così nei Balcani, nel Kurdistan, nelle rimosse regioni dell’Africa centrale. Fu così fino a pochi decenni fa nelle Alpi, fino a pochi anni fa nelle terre basche. Ancora pochi mesi fa una guerra civile insanguinava l’Irlanda del Nord.
E’ possibile che la guerra finisca fra poche settimane, ma la pace non ci sarà se l’Europa non metterà a frutto, anche nei Balcani, la lezione che ha imparato ad applicare nelle sue terre più prospere. E’ lecito chiedersi, dopo quanto è accaduto, se siano più dotate di poteri di autogoverno le repubbliche della Macedonia e quella di Albania, trasformate in piattaforme della Nato senza farne parte, di quanto lo siano, a Occidente, le regioni autonome del Sud Tirolo, dalla Catalogna o delle Fiandre.
Meno indipendenze dunque e più autonomie, meno bigottismi e più ecumenismi, meno zone d’influenza di ottocentesca memoria e più mercati comuni. Da realizzare prima e non dopo che i contrasti si siano nuovamente trasformati in occasione di guerra e le differenze da salvaguardare, in motivo di reciproco sterminio e di morte.