La guerra del metadone
Dopo il dibattito metadone sì metadone no, se ne apre un altro, sulla quantità da somministrare.
Come si cura un tossicodipendente? In che modo lo si aiuta a recuperare gli affetti, il lavoro e soprattutto una dignità annientata dall'eroina?
La questione ha sempre visto contrapposte due filosofie, due approcci distinti di intervento: quello "lacrime e sangue" caratteristico delle comunità stile S. Patrignano e quello invece più indolore costituito dalla somministrazione del metadone al posto dell'eroina, ma considerato da alcuni non idoneo a risolvere il problema alla radice. Proprio tra i sostenitori della terapia a base di metadone è però recentemente scoppiata un'aspra polemica che ha riproposto con forza l'annoso problema di quale sia il metodo più efficace nella lotta alla tossicodipendenza.
I fatti: un tossicodipendente in cura presso il SERT (Servizio Tossicodipendenze) di Trento, la struttura provinciale competente per la somministrazione del metadone, non contento delle dosi di metadone che gli vengono somministrate giornalmente e che, a suo dire, lo costringono a fare ricorso all'eroina per frenare le crisi di astinenza, si rivolge al SERT di Lucca, dove sembra che i quantitativi di farmaco sostitutivo somministrati siano decisamente più abbondanti. Il SERT toscano lo prende in cura e gli fornisce ogni giorno più del doppio dei mg. di metadone.
L'uomo risponde bene alla "cura", smette di farsi, ricomincia a lavorare e viene rispedito a Trento. E qui succede il fattaccio: i medici trentini si rifiutano di proseguire la cura basata su livelli di farmaco a loro giudizio troppo elevati, che migliorano sì la vita del soggetto, ma col rischio di creare una dipendenza al metadone stesso. Il SERT di Trento preferisce infatti una terapia basata su dosi di metadone molto più basse e soprattutto a scalare, certamente più dura da affrontare per il paziente all'inizio, ma con buone probabilità di sottrarlo a qualsiasi dipendenza nel medio lungo periodo, almeno secondo i sostenitori di questo tipo di approccio. Di qui scambi di accuse, denunce e via dicendo.
A ben vedere, dunque, la questione "metadone sì metadone no" che alimentava le polemiche di un tempo, pare essersi trasformata in "metadone sì, ma quanto?" Ci sono infatti due approcci diametralmente opposti al medesimo problema. Da una parte coloro che, sposando il detto "a mali estremi estremi rimedi", ritengono sia lecito, o quanto meno opportuno, utilizzare qualsiasi metodo per strappare alla droga chi, ormai ridotto alla frutta, le ha già provate tutte. E questo anche a rischio di portarlo lentamente dalla dipendenza all'eroina a quella al metadone.
Dall'altra parte si schierano invece coloro che, in nome della speranza che è sempre l'ultima a morire, non cedono le armi nemmeno di fronte alle situazioni che paiono irrimediabili, confidando che il metodo e la volontà prima o poi prevarranno.
Si tratta anche in questo caso, come è evidente, di due filosofie opposte, che sfociano inevitabilmente in scelte spesso più di morale che di opportunità e che divengono impossibili da conciliare, soprattutto in presenza di una normativa, come quella attuale, che lascia spazio ad entrambe le interpretazioni.
Le circolari ministeriali infatti determinano in via puramente indicativa i mg. di metadone che i SERT possono somministrare giornalmente. In questo senso la struttura trentina si trova perfettamente in linea con la maggior parte dei SERT italiani.
Le stesse circolari, però, stabiliscono che la dose di mantenimento va determinata su base individuale e verificata periodicamente dal medico. Si legittimano, in sostanza, entrambe le vie: sia la terapia a scalare, sia quella di mantenimento. Ma soprattutto non si prende una posizione chiara: quale delle due deve prevalere? Quindi non sbaglia il medico che somministra per dieci anni dosi altissime di metadone al paziente, ma non sbaglia nemmeno il medico che si rifiuta di farlo, insistendo per la via più lenta e graduale, ma certamente più dolorosa e con rischi di insuccesso, almeno nei casi più gravi e che è rappresentata dal metodo a scalare. La presa di posizione per l'una o per l'altra via non può che essere dettata da una valutazione etica del problema, almeno in attesa di un intervento normativo che ponga fine ai dubbi interpretativi.
D'altra parte non si tratta certamente di una scelta facile, considerando che da essa dipende il destino e la salute di molti giovani. E' bene sottolineare nuovamente che la questione concerne i casi di tossicodipendenza più disperati, quelli cioè che le normali terapie di metadone o le Comunità non sono in grado di risolvere. La cura, in questi casi estremi, può o meno prescindere dal recupero anche della psiche del paziente, oltre che del suo fisico? In altri termini: nei casi più gravi è lecito abbracciare la teoria del male minore e quindi preferire la cura del tossicodipendente da un punto di vista esclusivamente medico farmaceutico, con dosi da cavallo di metadone per il resto dei suoi giorni, confidando di recuperarlo per questa via ad una vita socialmente normale?
O sarebbe invece moralmente più corretto non cedere al "pillolismo" sfrenato che va tanto di moda (pensare cioè di risolvere situazioni di difficoltà di relazioni attraverso l'ingestione di sostanze chimiche) e puntare invece sulla ricostruzione dalle fondamenta di una psicologia a pezzi, che rischia, se non curata nelle sue pieghe più profonde, di finire sballottata da una dipendenza all'altra? Anche se questo implica un percorso più lento e difficile?