Israele e i veleni della guerra permanente
Nella più grande democrazia del Medio Oriente si agitano fantasmi inquietanti
Shlomo in realtà si chiama Salomon, ed è un bambino etiope di religione cristiana rifugiato in Sudan con la madre, che per salvarlo lo affida ad una donna falasha, popolazione di religione ebraica che nel 1984 viene trasferita in Israele. La sua storia viene narrata nel film di Radu Mihaileanu "Vai e vivrai" (2005), un’interessante riflessione sulle contraddizioni di un Paese che nasce per offrire una patria agli ebrei di qualunque nazionalità ma che si trova oggi a fare i conti con gli spettri del razzismo.
Shlomo, oltre a dover nascondere la propria religione, deve subire l’umiliazione riservata ai suoi compagni di sventura, considerati cittadini di serie B perché neri. Nel 1996 la rabbia dei falasha scoppia in proteste rabbiose in seguito alla rivelazione che le partite di sangue da loro donato venivano segretamente distrutte perché considerate "ad alto rischio Aids".
La comune appartenenza religiosa non basta dunque a garantire la convivenza, in una società in continua tensione fra una complessa stratificazione etnica interna e la paura del diverso, velenosa conseguenza dell’occupazione coloniale e della guerra permanente, nutrite da un nazionalismo deteriore che non ammette defezioni.
"La disumanizzazione del colonizzato – scrive Michel Warschawski, internazionalista israeliano, nel libro «A precipizio» (Bollati Boringhieri, 2003) – comporta inevitabilmente la disumanizzazione del colono e della sua società", tanto che "la brutalità del discorso politico dominante ha orai contaminato la società israeliana".
Quando poi a giustificare una difficile convivenza non vi è nemmeno il comune credo religioswo, allora la discriminazione diventa grave e il razzismo nemmeno tanto nascosto. Lo sanno bene i cittadini israeliani di origine araba, il 20% della popolazione di Israele, l’80% dei quali di religione islamica: nel 2007 l’Associazione per i Diritti Civili in Israele (Acri) segnalava un incremento del 26% negli episodi anti-arabi. Secondo Sami Michael, presidente dell’associazione, "la società israeliana sta raggiungendo nuove punte di razzismo a detrimento della libertà di espressione". Ultima dimostrazione di questo diffuso sentimento anti-arabo la decisione – arrivata pochi giorni fa – di vietare la partecipazione di due partiti arabi alle elezioni della Knesset che si terranno a febbraio.
Un sentimento di ostilità indotto nella popolazione da un conflitto infinito, perpetuato da una classe politica che non pare essere all’altezza della pace e che usa il "disprezzo per l’arabo" come strumento di propaganda e di guerra.
"Mentre il vecchio discorso sionista, ebraico e democratico, laico e a connotazione liberale, è in pieno arretramento", spiega Warschawski, si assiste all’affermazione di un’ideologia che rimodella la cultura israeliana. Essa è basata su "un militarismo nazionalista più o meno associato all’integralismo religioso" e su "un razzismo dichiarato".
Una disumanizzazione del nemico che serve a legittimare l’apartheid interno da un lato e la politica coloniale nei confronti dei territori occupati dall’altro. "Gaza – spiega Avi Shlaïm, professore anglo-israeliano di relazioni internazionali all’Università d’Oxford – è un classico caso di sfruttamento coloniale in un’era post-coloniale".
Una politica di "bantustanizzazione" (per usare un’espressione di Noam Chomsky) della Palestina, deliberatamente perseguita alternativamente con gli strumenti della dominazione economica, della colonizzazione e della guerra.
I paragoni tra Israele e il Sudafrica pre Mandela ritornano spesso nei commenti di osservatori e studiosi indipendenti: non è un caso che lo Stato ebraico (insieme agli Usa) abbia boicottato le conclusioni della prima conferenza Onu sul razzismo del 2001 a Durban e che si appresti a disertare la seconda, prevista per il 2009.
Ma mentre nel caso sudafricano l’ingiustizia del regime era resa palese dalla differenza di colore tra una minoranza al potere e la maggioranza sofferente, la nostra difficoltà nel distinguere oppressore e oppresso è invece palese sotto l’infausta luce delle bombe che hanno colpito Gaza. Paradossi del "fardello dell’uomo bianco".