Israele e i suoi vicini
Nascita di un nuovo impero regionale?
Quando, tre anni fa nell’agosto 2020, fu annunciato con squilli di fanfare dal presidente Trump la firma degli “Accordi di Abramo” tra Israele e alcuni stati arabi (Emirati Arabi Uniti, Bahrein, Sudan, cui più tardi si aggiunse il Marocco), il mondo cominciò a pensare giustamente a una svolta geopolitica, o meglio agli inizi di una svolta. Perché fin da allora lo scopo dichiarato di Israele era quello di “imbarcare” negli accordi anche e soprattutto l’Arabia Saudita, il più ricco e influente degli stati del Golfo, e si disse che in fondo era solo una questione di tempo, visto che israeliani e sauditi collaboravano da tempo a molti livelli, compreso quello della sicurezza. L’Arabia Saudita però, alle prese con una guerra disastrosa contro il piccolo e poverissimo Yemen (aiutato solo dall’Iran degli ayatollah), tergiversava sull'adesione agli Accordi pensando soprattutto a come uscire dal pantano yemenita che aveva risucchiato infinite risorse e guastato l’immagine del “Golia arabo” umiliato dai guerriglieri Houthi del piccolo “Davide yemenita”.
Gli Houthi erano giunti, con l’assistenza iraniana, a fabbricarsi missili e persino droni che nel settembre 2019 avevano colpito le installazioni della ARAMCO, la maggiore compagnia petrolifera saudita, dimezzandone per qualche mese la produzione. Poco dopo quell’incidente, che aveva messo a nudo la debolezza delle difese antiaeree del regno (affidate ai mitici missili americani Patriot, che da allora tanto mitici non furono più), l’Arabia Saudita perse anche il suo alleato principale, gli Emirati Arabi Uniti, che si ritirarono prudentemente dal conflitto in Yemen, timorosi di attirare le rappresaglie degli Houthi che ne avevano già colpito gli aeroporti principali di Dubai e Abu Dhabi. Fu allora che il principe saudita Muhammad bin Salman (MbS) cominciò a cercare un qualche accordo con lo storico nemico, l’Iran, grazie alla mediazione dell’Irak sciita: in effetti a Baghdad avvennero colloqui inizialmente segreti, allo scopo di giungere a una ripresa dei rapporti diplomatici e, soprattutto, per ottenere la neutralità iraniana nel conflitto con lo Yemen degli Houthi.
Come sappiamo, questi colloqui hanno portato al recente clamoroso accordo tra Iran e Arabia Saudita mediato dalla Cina, che qualcuno ha paragonato a un terremoto geopolitico nell’area. I veri sconfitti di questo accordo irano-saudita sono gli israeliani, che hanno visto sfumare il progetto di allargare gli Accordi di Abramo al regno saudita, nell’ottica di costruire una vasta alleanza arabo-israeliana in funzione anti-iraniana. Gli Usa poi hanno visto in questo riavvicinamento tra Iran e Arabia Saudita una doppia sconfitta: il voltafaccia del loro più fido alleato nella regione dopo Israele e il successo della diplomazia cinese che ha sancito urbi et orbi il drammatico calo di influenza degli USA in Medio Oriente, già compromesso dal poco dignitoso ritiro dall’Afghanistan di due anni fa.
Ma Israele non è rimasto a guardare. Gli ormai ridimensionati Accordi di Abramo, messi in crisi anche dalla rinnovata ondata di scontri israelo-palestinesi alla moschea al-Aqsa, che creano forte imbarazzo ai firmatari arabi, hanno fatto passare in sott’ordine altre manovre israeliane su scacchieri diversi. In primis nel Kurdistan irakeno, regione semi-autonoma dell’attuale Irak, dove Israele mantiene contatti cordiali col governo della regione autonoma e non solo. Qui il governo di Tel Aviv avrebbe discretamente inviato funzionari dei servizi segreti e dell’esercito. Con fastidio dell’Iran, che si sente ora sorvegliato da vicino, e che ha ogni tanto spedito salve di missili per distruggere presunte basi israeliane. Da dove – si sospetta – potrebbero essere stati pianificati i periodici attacchi con droni “di origine sconosciuta” che colpiscono strutture civili e industriali iraniane.
Ulteriori esempi di questa silenziosa espansione militare e geopolitica israeliana vicino ai confini dell’Iran riguardano due paesi turcofoni: l’Azerbaijan e il Turkmenistan. Non è un segreto che l’Azerbaijan intrattiene ottimi rapporti commerciali con Israele, a cui fornisce risorse energetiche in cambio di tecnologia e assistenza militare anche nel recente vittorioso conflitto che ha opposto gli azeri all’Armenia cristiana. L’Iran è divenuto fortemente sospettoso di questo avvicinamento israelo-azero per una semplice ragione: circa il 30% della popolazione iraniana è di stirpe azera e parla azero, una lingua turcica. Il nazionalismo oggi soffia forte a Baku, capitale azera, e ogni tanto sembra voler anche aizzare i “fratelli azeri” dell’Iran nella prospettiva di riunire tutti in un’unica patria: l’Azerbaijan. In realtà gli azeri d’Iran sono una minoranza integrata, anche ai massimi livelli della repubblica islamica, né hanno mai dato finora segni di insofferenza verso il potere centrale. Ma i rapporti amichevoli tra Azerbaijan e Israele non lasciano dormire sonni tranquilli all’Iran che, a torto o a ragione, paventa la frammentazione del Paese su basi etniche, fomentata dall’arcinemico Israele. Ancora, è notizia di qualche settimana fa che anche il Turkmenistan, che confina a nord con l’Iran, ha allacciato ufficialmente relazioni diplomatiche con Israele, con scambio di ambasciatori. La sensazione di un accerchiamento del Paese ad opera di Israele, nemico giurato degli ayatollah, si è ulteriormente acuita nei media iraniani, anche se verosimilmente il Turkmenistan cerca solo di allacciare fruttuosi rapporti con uno degli stati-chiave della regione, senza necessariamente voler nuocere al suscettibile vicino iraniano.
Fin qui, potremmo dire, Israele si è limitato a cercare abilmente di migliorare i rapporti coi vicini (arabi, kurdi, turchi) dell’Iran. A che scopo? In sostanza, per contrastare un accerchiamento vero o presunto che da anni Israele denuncia ai quattro venti: quello della cosiddetta mezzaluna sciita. In altre parole Israele accusa l’Iran di avere creato negli ultimi decenni una rete di stati satelliti (Irak, Siria, Yemen degli Houthi) e movimenti estremisti (Hezbollah in Libano, Hamas in Palestina, Hashd al-Shaabi in Irak) ferocemente anti-israeliani. In sostanza Israele vorrebbe rompere l’ accerchiamento che sarebbe organizzato e diretto da Teheran ai suoi danni. Quasi superfluo aggiungere che la propaganda di ciascuno dei due paesi nemici alimenta questa sindrome da accerchiamento per giustificare le proprie contromosse. Ma è solo questo, o emerge in filigrana qualcosa di più? Si comincia in effetti a parlare di un disegno neo-imperiale, di una proiezione geopolitica di Israele su tutta l’area mediorientale, naturale esito dello strapotere di un paese che, dal punto di vista economico, tecnologico e militare, non ha rivali nella regione, se si eccettua forse la Turchia di Erdogan, e che sta mettendo a frutto la larga superiorità acquisita in questi settori.
Israele non a caso si è mosso in questi anni anche su un altro delicato scacchiere, il Mare Arabico (la parte occidentale dell’Oceano Indiano) con alcune mosse concordate con gli Emirati Arabi Uniti, uno dei paesi firmatari degli Accordi di Abramo.
Facendo un passo indietro, occorre ricordare che, dopo l’inizio della guerra civile in Yemen nel 2014, gli Emirati, approfittando della situazione caotica, occuparono con un’azione militare a sorpresa l’isola yemenita di Socotra, che si situa tra il Corno d’Africa e la penisola araba, installandovi poi una base militare. Gli Emirati, paese ricchissimo e super-armato che qualcuno ha paragonato a una Sparta del Golfo, coscientemente perseguono da anni un progetto di espansione nell’area. Con le armi ma soprattutto con la finanza gli Emirati sono arrivati a controllare alcuni porti dello Yemen meridionale, ammodernati e gestiti con capitali arabi, nel tentativo di diventare una potenza regionale con compiti di gendarme delle vitali rotte del petrolio. Ed è in questo progetto che si è inserito Israele, ottenendo dagli Emirati, il padrone de facto di Socotra (in barba all’ONU e alle leggi internazionali) il permesso di installare una base militare su un’altra isola minore, ‘Abd al-Kuri, a sud-ovest di Socotra che comporta l’espulsione dall’isola della locale popolazione yemenita. Si tratta, come si intuisce, di una posizione strategica che permetterà a Israele di stare a due passi dal Golfo Persico con le proprie efficientissime forze aeronavali e dell’intelligence. Qualche osservatore, facendo due più due, ne ha concluso che gli USA, che già presidiavano la regione dalle loro basi in Qatar e Kuwait, stiano gradualmente dando in cogestione a Israele e Emirati il controllo di questo tratto di mare che è forse la vera vena giugulare del commercio mondiale del petrolio.
Quanto fin qui delineato va ad intrecciarsi con gli ultimi sviluppi della politica interna israeliana, segnata com’è noto dai tentativi di Netanyahu di mettere sotto controllo la magistratura. Lo scontro nelle piazze e in parlamento con una forte opposizione politica e sociale è stato per ora solo rinviato da un fragile compromesso. Ma che ne sarà di Netanyahu e del suo governo quando le tensioni ricominceranno? Nel frattempo la destra estremista israeliana, al governo col focoso ministro Ben Gvir, ha accelerato le provocazioni anti-palestinesi con atti sconsiderati e promuovendo persino incursioni militari all’interno della moschea di al-Aqsa (il terzo luogo sacro dell’Islam, dopo Mecca e Medina) e il pestaggio dei fedeli in preghiera, col pretesto che vi si nascondevano i terroristi. Sarebbe un po’ come se da noi la polizia interrompesse una funzione religiosa nel Duomo di Milano, pestando i fedeli col pretesto di cercare criminali o anarchici sovversivi…
Il movimento estremista dietro il ministro Ben Gvir non fa mistero di voler cacciare i Palestinesi anche dalla Cisgiordania per attuare il progetto di una Grande Israele. La situazione interna incandescente ha indotto alcuni osservatori a prevedere che Netanyahu potrebbe cercare una via d’uscita nel più classico dei modi: una guerra su larga scala al “terrorismo”, ossia contro i Palestinesi e i loro sostenitori di Hezbollah in Libano e di Hamas a Gaza, magari approfittando dell’occasione per regolare i conti anche con la Siria di Assad (regolarmente bombardata dai jet israeliani, nel silenzio generale dei media mainstream) e i suoi protettori iraniani. Questi due movimenti hanno reagito minacciando di coprire Israele con una pioggia di razzi e missili sparati da Gaza e dal Libano, una prospettiva che metterebbe a dura prova le difese israeliane e di cui si è avuto già un anticipo agli inizi di aprile, a seguito delle incursioni dei militari israeliani nel recinto di al-Aqsa. Insomma, anche tra Palestinesi e Israeliani siamo di nuovo alle minacce e alle contro-minacce: nulla di nuovo sul fronte mediorientale. Ma soprattutto nulla che faccia intravedere una qualche prospettiva di pace nella tormentata regione che ha dato i natali alle tre grandi religioni di Abramo.