L'esitazione di fronte ai vaccini
L’importanza di rispettare i dubbi, le preoccupazioni, a volte la diffidenza, in particolare dei genitori, verso i vaccini. Da “Una Città”, mensile di Forlì
Fino a una decina d’anni fa, quando un paziente mi diceva che aveva delle perplessità a proposito della vaccinazione perché aveva letto delle cose su Internet, mi irritavo e lo interrompevo subito, affermando che erano tutte balle. Avevo notato che spesso queste discussioni finivano male: i pazienti se ne andavano e non tornavano più.
All’epoca ero un vaccinologo in erba. Poi ho cercato un approccio diverso, ricorrendo alle neuroscienze e soprattutto alla metacognizione, per comprendere meglio quali siano i meccanismi della mente. Ho assunto un’attitudine più tollerante, ho iniziato ad ascoltarli, a cercare di comprenderli, chiedendo loro di spiegarmi i loro dubbi. Questo all’inizio mi ha anche causato problemi con alcuni colleghi, che mi dicevano: “Ma tu da che parte stai, fai il vaccinologo o stai con i no vax?”. Meno male che poi ho trovato una documentazione nella letteratura scientifica e grazie alla metacognizione sono atterrato nel campo della intervista motivazionale.
Mi spiego. Dire per esempio: “Signora, lei deve smettere di bere, le fa male al fegato”, non sortisce alcun effetto. L’etilista è cosciente che l’alcol gli fa male, il fumatore è cosciente che il fumo lo danneggia, ma con questi interventi non lo aiuti; devi capire prima di tutto se lui vuole cambiare qualcosa e cosa rappresenta per lui l’alcol o il fumo.
La metacognizione è la scienza cognitiva che studia il pensiero umano, il modo in cui ragioniamo e costruiamo i nostri pensieri, ci informa in particolare sui meccanismi di errori logici che possiamo commettere. Questo approccio consiste nel guidare il paziente a esplorare il proprio pensiero; indurlo a confrontarsi con i suoi dubbi, le sue contraddizioni e i suoi pregiudizi, può portarlo ad un processo di cambiamento. Il colloquio si basa su quattro principi fondamentali.
Primo: dimostrare empatia verso l’interlocutore: il medico accoglie le sue emozioni e considerazioni senza giudizio, cercando di sviluppare un legame autentico e una relazione alla pari, non in un rapporto d’autorità.
Secondo: dopo aver esplorato le opinioni del paziente e ottenuto il suo consenso a trasmettere informazioni, il medico evita di opporsi con una replica, ma cerca di fornirgli a sua volta informazioni che gli creeranno una tensione tra le sue opinioni e ciò che sta sentendo. L’obiettivo è che il paziente entri in conflitto con se stesso; è questo dubbio che può fargli cambiare idea.
Terzo: evitare la discussione, che il più delle volte respinge il paziente in un atteggiamento difensivo e quindi rafforza la sua resistenza. La trasmissione neutra delle informazioni impedisce invece un conflitto.
E infine, coltivare un sentimento di capacità personale: il paziente deve sentirsi libero e valorizzato nella sua autonomia decisionale; così il medico si metterà al servizio della decisione del paziente rafforzando la sua capacità di scelta.
Ogni volta che incontro un “vaccino esitante”, non voglio che lui cambi parere. Ci sono molti pazienti che alla fine mi dicono: “Senta, lei è molto gentile, ma io rimango della mia idea”, ma non arriviamo mai al conflitto, perché nella pratica dell’intervista motivazionale non c’è posto per un giudizio sulla sua opinione.
I genitori che esitano o che rifiutano la vaccinazione dei figli non è che vogliano ucciderli, è chiaro che li vogliono salvare e proprio lì sta il gap cognitivo, perché anch’io, quando consiglio il vaccino, ho una intenzione buona, sono in buona fede.
Nel 2019, quando l’Oms ha dichiarato la vaccino-esitazione come una delle minacce alla salute pubblica, i miei colleghi si sono interessati di più alla questione e hanno iniziato a chiedere che tecniche usassi. Adesso, naturalmente per via dell’emergenza Covid, sono molto sollecitato, come altri colleghi che si occupano di questo approccio, e più che mai ci rendiamo conto che l’esitazione è legittima.
I vaccini anti Covid
Tutti dubitiamo, soprattutto davanti a una novità. Questi vaccini anti Covid sono nuovi, non abbiamo mai sviluppato un vaccino in meno di un anno, alcuni usano una nuova tecnologia e se a settembre mi avessero chiesto quale fosse il mio grado di fiducia su questi vaccini, io per primo sarei stato dubbioso.
Quando abbiamo avuto l’omologazione dei vaccini a Rna (acido ribonucleico), i primi a chiamarmi sono stati i colleghi; mi dicevano: “Ma io cosa dico ai miei pazienti, io per primo sono incerto”.
Gli studi hanno dimostrato che l’esitazione nei professionisti della salute è la stessa di quella dei pazienti, una percentuale che varia dal 5 al 30%, e adesso, con i vaccini Covid che presentano una doppia novità, può arrivare al 40-50% della popolazione; l’ho verificato con i miei colleghi a Ginevra. Io stesso, nonostante le mie tante ore di vaccinologia, a settembre ero perplesso, capivo che avevo bisogno di leggere gli studi relativi a questi vaccini, non solo i comunicati che ci avevano fornito. Così, quando la Pfizer ha messo a disposizione le cento pagine di studi, per un intero fine settimana me le sono studiate e per me è stato sufficiente. Però il mio bisogno di capire e convincermi non è per forza uguale a quello dell’infermiera che magari non ha tempo di leggere queste pagine. Non c’è un’unica modalità per rispondere all’incertezza, bisogna cercare di comprendere i pensieri dell’altro e chiedergli cosa lo spaventa. Un collega, per esempio, mi ha risposto che aveva timore che questi vaccini Rna entrassero nel genoma, portassero a una mutagenesi; un altro temeva le reazioni che aveva avuto in passato; una paziente aveva letto questa storia dei microchip, e così via.
Ora, credo che la salute pubblica dovrebbe interessarsi anche di questo, c’è bisogno di informazioni, ci vuole il foglietto illustrativo. Insomma, la comunicazione è molto importante di fronte a una novità.
Certo, questi vaccini hanno avuto un processo di accelerazione, ma le fasi degli studi non sono state compresse. E poi, quando si sviluppa un vaccino, la soglia di sicurezza è molto più elevata di quella di un farmaco. Perché se elabori un farmaco contro un cancro, sai che il paziente potrà essere pronto a sopportare degli effetti collaterali. Gli dici che quel farmaco gli darà nausea e vomito per tre giorni, ma lui sceglierà di tollerarlo in cambio di una speranza di vita. Quando invece si propone il vaccino, lo si fa a una persona sana. Proprio il principio “primum non nocere” per il vaccino è più vero che mai, e dunque la soglia di sicurezza è molto più alta.
In genere per ottenere questa soglia di sicurezza massima, sarebbe stato necessario controllare cosa accade dopo un anno. Ma in una situazione d’emergenza si è deciso che, essendoci una efficacia dimostrata addirittura del 95% (e sarebbe stata sufficiente al 70%) e visto che nei due mesi non si erano manifestati effetti collaterali gravi, si poteva attivare una omologazione di emergenza. Non potevamo aspettare un anno per ottenere la massima sicurezza, perché certamente avremmo avuto sulla coscienza milioni di morti.
Mia figlia, che ha vent’anni, preferirebbe aspettare alcuni mesi e mi ha chiesto consiglio. Io le ho proposto di attendere, perché lei non appartiene a una categoria a forte rischio. Al contrario, mia madre, che di anni ne ha 70, è ipertesa e anche in sovrappeso, non può permettersi di rimandare. D’al-tronde l’esitazione nelle persone a rischio o anziane è molto bassa.
In Italia, prima del Covid, si registrava una resistenza importante da parte dei genitori rispetto ai vaccini, numerosi e obbligatori, per i figli. Questa esitazione è conseguenza anche del fatto che ormai incontriamo raramente certe malattie, mentre gli anziani ne hanno qualche memoria. Noi pensiamo a uno scampato pericolo, ma se si smettono le vaccinazioni, probabilmente il pericolo ritorna.
Grazie al vaccino, il vaiolo e la polio sono quasi debellati. Potremmo dire che i vaccini sono vittime del proprio successo, cioè che grazie all’immunità di gregge (la maggioranza della popolazione è stata vaccinata) non si riscontrano più, ad esempio, il tetano o la difterite. Poi uno va su Internet e trova articoli che affermano che il vaccino per il morbillo si collega all’autismo e allora pensa che nessuno attorno a lui è morto di morbillo e così la percezione della pericolosità della malattia scende.
Quando poi capitano dei focolai di meningite, allora scatta una diversa reazione. Qualche anno fa a Ginevra abbiamo avuto il caso drammatico di una ragazzina di 14 anni deceduta per il morbillo (a una persona su mille può succedere). Apparteneva a una famiglia contraria ai vaccini; lei, i suoi fratelli e i cugini non avevano avuto nessun vaccino. Dopo questo terribile lutto, sono venuti tutti a vaccinarsi.
Il sistema immunitario dalla nascita in poi è un sistema vergine, l’immunità devi costruirla, tanto che nei primi cinque anni di vita i bambini contraggono una decina di infezioni virali all’anno. Quando analizzi il sistema immunitario dei bambini di cento anni fa, ti accorgi che anche allora era così, solo che loro correvano il rischio di incontrare una ventina di malattie potenzialmente mortali. Basta vedere qual era allora la mortalità infantile e quale è ancora oggi in alcuni paesi dove il sistema sanitario non è efficiente.
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Alessandro Diana, docente all’Università di Ginevra, è membro di “Infovac”, una piattaforma informativa svizzera sul tema dei vaccini in Svizzera.it