L’eco metafisica del ringhio di Clint
“Gran Torino”
Clint Eastwood racconta storie semplici. In questo caso, quella di un reduce della guerra in Corea, interpretato dallo stesso regista. Cui muore la moglie. Il cui quartiere si trasforma in un ghetto abitato da orientali. Proprio a lui doveva succedere, proprio a lui che i musi gialli li odia... Ma un ragazzetto, un suo vicino di casa hmong viene ricattato da una ganga della sua stessa etnia. Clint si pone al suo fianco.
Sì, tutto è tremendamente semplice: siamo all’interno di un film di genere, Clint non vuole certo scombussolare le carte, fare cinema post-moderno. Ma il regista riesce a rivoltare in pro tutti i contro che potrebbero derivare dalla convenzionalità di una trama come questa: Eastwood sa far viaggiare la storia su binari solidissimi, il racconto è al sicuro, stretto nel pugno di un autore che sa esattamente dove condurlo.
Eastwood è del 1930. La guerra in Corea va dal ‘50 al ‘53. Facendo un po’ i conti, il protagonista, Walt, deve aver proprio la sua età. Il coraggio con cui Clint ci mette il fisico è, specie per un divo hollywoodiano, ammirevole: ci mette il fisico nel senso che non “interpreta” il vecchio, ma si mostra come tale - nei movimenti, nella fatica, nelle espressioni, nel disprezzo per i tempi che corrono che gli si legge in faccia. Walt è ancora forte, ma vorrebbe essere forte come quand’era giovane. Il quartiere, e con lui il mondo, è cambiato, e lui vorrebbe che non lo fosse. I nipoti vanno al funerale di sua moglie con addosso le magliette del football, bucati di piercing... Il furore di Walt emerge in diversi primi piani in cui Clint guarda dritto in avanti, strizza gli occhi, e ringhia. Ringhia dalla rabbia. Letteralmente. Il furore di Walt è lo stesso che chiude la trasposizione di John Ford dell’omonimo romanzo di John Steinbeck, quando mamma Joad dice: “Because we are the people”. È un furore certo conservatore, ma non tristemente individualista. L’ansia non è riservata al proprio destino privato, è collettiva.
Walt vorrebbe un mondo dove il lavoro è onesto. Dove un operaio che lavora alla catena di montaggio può comprarsi i prodotti migliori che escono dalla sua fabbrica. Il simbolo di tutto questo è la Gran Torino che dà il titolo al film: un’automobile-gioiello di marca Ford che Walt tiene nel suo garage. All’ideologia di Eastwood basta questo: che la classe operaia possa permettersi di condurre una vita non solo dignitosa, ma capace di regalare soddisfazioni. La Gran Torino sancisce la vittoria dell’American dream: l’America è capace di ripagare i sacrifici di una vita onesta. È all’interno di questo contesto ideologico che va collocata la continua comparsa di sacerdoti (non sempre o necessariamente buoni, ma sempre presenti) nel cinema recente di Eastwood. In “Million Dollar Baby” c’è un prete anti-eutanasia; in “The Changeling” il prete è l’unica persona che si batte fino in fondo a fianco della madre vessata dal sistema politico e giudiziario; in “Gran Torino” un prete vuole che Clint si confessi. Il finale del film, con la sua carica cristologica, va collocato in questo territorio mentale. Il ringhio di Clint diventa metafisico. Al punto che ne rimane l’eco anche sui titoli di coda, sopra il sole e il traffico di Detroit, Michigan.
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