“Caravaggio. Il contemporaneo”
Quello sgomento che ci interroga. Rovereto, Mart, fino al 14 febbraio.
Certo, trovarsi in mezzo a due opere apparentemente identiche, poste una di fronte all’altra, di cui non sappiamo quale sia l’originale, è una messa in scena del doppio che ha sapore di installazione iper-contemporanea nell’epoca della riproducibilità estrema dell’opera d’arte. Ma sembra dopotutto una distrazione non necessaria, e quando avverrà la restituzione dell’originale (e si potrà tornare al museo) ci si potrà concentrare anche meglio sul discorso di questo Caravaggio.
Che da un lato è il racconto inevitabilmente sacro, per tema e destinazione, del seppellimento di una martire cristiana, Lucia, da porre sull’altare della chiesa eretta nel luogo del suo martirio. Ma al tempo stesso sembra non dare molto spazio a quelle che sono le risposte tipiche della pittura religiosa alle domande sulla morte e l’aldilà.
Caravaggio non aveva mai mancato di forzare le maglie delle richieste che gli venivano dai prelati-committenti, a volte dilatandole al punto di vedersi l’opera rifiutata, trovando comunque, anche in quell’ambiente, chi capiva la portata rivoluzionaria del suo sguardo. Che consiste, come ci aiutò a capire nel secolo scorso Roberto Longhi, grande storico dell’arte, nel portare dentro il quadro l’imperfezione del mondo reale (in un’epoca dominata dai soggetti idealizzati) e di fare questo usando la luce, e quindi l’ombra, più o meno come può fare un regista teatrale o cinematografico.
Qui c’è un passo in più: la visione di Caravaggio sembra non dare quasi spazio alla speranza teologica (si fa sentire la sua vicenda di fuggiasco dalla pena capitale che gli pende sulla testa), mette in primo piano gli affossatori, relega in secondo piano la benedizione del vescovo, insomma lascia all’evento il peso della tragedia senza spalancare la liberazione ultraterrena, laddove lo spazio che sarebbe riservato al cielo è tutto occupato dalla parete cupa della cava in cui avviene il seppellimento.
I principali riferimenti al contemporaneo proposti da Sgarbi sono novecenteschi. Uno, che potremmo dire sia biografico che artistico, è Pasolini, con la sua morte violenta, il suo legame con i ragazzi del popolo, le matrici pittoriche del suo cinema. L’altro è l’opera di Burri, un pittore che ha fatto anche lui la sua rivoluzione nel quadro e il cui linguaggio pare l’antitesi perfetta della figurazione di Caravaggio ma tocca, nell’informale materico, un analogo senso di estremo limite, traendo dall’umiltà della materia la forza dell’arte.
Pensando al modo in cui Caravaggio, anche al di là di quest’opera, tiene insieme i due livelli (il racconto delle scritture e la loro “incarnazione” in personaggi presi dal popolo, tra i ragazzi e le prostitute) è il nesso con Pasolini, coi suoi sottoproletari protagonisti involontari di una storia sacra, ad apparire più pregnante, e lo è in questo elemento di poetica forse più che nel “martirio”, nel corpo massacrato sul quale si preferisce insistere qui, in un parallelo col corpo sgozzato della santa.
La storia degli ultimi vent’anni offrirebbe poi anche troppi collegamenti coi temi della morte violenta, del “martirio”, della vita esule e fuggiasca che dominò la biografia di Caravaggio, ma non è questa la contemporaneità scelta da Sgarbi: con l’eccezione del quadro di Cagnaccio di San Pietro (I naufraghi, 1934) che nel suo realismo scolpito e levigato evoca oggi, per chi voglia vederli, altri naufragi, altri “seppellimenti”.
I tre pittori italiani a noi contemporanei qui convocati, ciascuno portatore di un proprio riconosciuto percorso e discorso, hanno in comune il fatto di rielaborare e reinterpretare il realismo di Caravaggio, o dei suoi dintorni temporali, filtrandolo e contaminandolo con i mezzi e i linguaggi attuali della figurazione: Nicola Verlato, molto impegnato sulla figura di Pasolini, usa tra l’altro il filtro del cinema in bianco e nero; Luciano Ventrone dà una lettura “aumentata” e fotograficamente sovraesposta della natura morta; Nicola Samorì lavora ad una sorta di smottamento e sfregio della superficie pittorica partendo da opere cinque e seicentesche dedicate alla figura di Lucia.
P.S. Ad alleggerire un po’ la gravità dei temi, si può citare il siparietto aperto da Sgarbi col suo scritto nel catalogo dove, mentre spiega genesi e ragioni della mostra (“a mia immagine e somiglianza”), chiama in causa Bonito Oliva (“mio storico nemico”, “ma spirito veloce e rapace”) invitandolo a vedere la mostra. Qualche giorno dopo, nella rubrica “aborismi” di Bonito sul Venerdì di Republica, compare, senza destinatario, il seguente “aborisma”: “Un narcisista non va ai funerali degli altri”.