“Il processo ai Chicago 7”
Cinema in rete. Un impegno troppo patinato. Un film di Aaron Sorkin, su Piattaforma Netflix
“Il processo ai Chicago 7”, scritto e diretto da Aaron Sorkin, è un film giudiziario che denuncia le nefandezze della corte Federale di Chicago in un processo del 1969. La pellicola narra del processo ai cosiddetti Chicago Seven, un gruppo di attivisti contro la guerra del Vietnam accusati di aver cospirato per causare lo scontro tra manifestanti e Guardia Nazionale, avvenuto il 28 agosto 1968 a Chicago in occasione delle proteste alla convention del Partito Democratico. Ma l’accusa è infondata e pretestuosa per colpire i leader dei movimenti giovanili e pacifisti contro la guerra del Vietnam.
Cinema impegnato, cinema politico, cinema paladino dei valori di una nazione, cinema prodotto da Hollywood come credibile e popolare baluardo liberal.
Peccato però che il film appaia come un classico lavoro di genere, con canoni prestabiliti e conclusioni prevedibili: iniziale sintesi convulsa dell’accaduto, processo, giudice avverso, alti e bassi della difesa, colpi di scena, imprevisti spettacolari, tutto è perduto, edificante e commovente trionfo della giustizia (se non succede subito, capiterà in appello).
Opera meno riuscita del filone di “Amistad” e “The Post” di Steven Spielberg, che qui è produttore con la sua Dreamworks, il film è costato 35 milioni di dollari e se è contestatario nei contenuti, è però allineato alle forme della spettacolarizzazione americana per la conquista di un mercato. Quindi cattura, avvince, ha un buon ritmo, ottime interpretazioni, dialoghi acuti, indignazioni ampiamente condivisibili e una vis comica brillante, ma la confezione troppo patinata non si addice alla necessaria acidità di questa contrapposizione di mondi. Forma e contenuto sono insomma esattamente quello che devono essere per il business, meno per il messaggio che dovrebbe trasmettere. E resta la sensazione di una ricostruzione storica che finisce per stemperare, anziché sottolineare, il ritratto della controcultura dell’epoca e il valore della protesta.
L’impressione è che il film sia stato realizzato proprio perché il soggetto incarnava perfettamente i canoni necessari per manifestare le posizioni progressiste dello show business liberal hollywoodiano. Ma la distanza di tempo dai fatti (più di 50 anni) appare ancora più remota di quanto non sia realmente, al punto da rendere l’indignazione o una possibile riflessione sul sistema politico/giudiziario dell’epoca, anacronistica e inutile. L’ostilità del giudice, ad esempio, è grottesca e solo il personaggio di Bobby Seale delle Black Panther pare efficacemente attuale, ricordandoci la permanente, praticata discriminazione degli afroamericani della nostra contemporaneità. In sostanza un film anche godibile, ma deludente perché pesa molto la maniera, dalla quale non sembra riuscir a dipanarsi.
Ho recentemente visto in streaming alcune pellicole del Torino Film Festival tra le quali “Las Niñas” di Pilar Palomero, un film su una adolescente che cresce nella Spagna ancora molto cattolica e retrograda del primo post franchismo anni ‘80. La normalità dell’esistenza che senza clamori racconta la lenta ma inesorabile rivoluzione ed emancipazione di una nazione, è molto toccante senza scomodare episodi clamorosi della storia. Ma soprattutto si tratta di un film libero, dalla forma non necessariamente ellittica.
A ripensarci bene, però, un certo senso di incompiutezza, di aspettative non soddisfatte, di operazioni studiate, permea molta produzione destinata alle piattaforme televisive. E questo senso di plastificazione, intrinseco e funzionale alle serie televisive, alla forma film in tv risulta spesso nuocere, perché nel confronto con i prodotti per le sale si notano ancora spesso delle differenze. Soprattutto nelle libertà dai format.