Le due apocalissi, gli ultimi
Trentini tropicali in via d’estinzione? Renzo Maria Grosselli, Le due apocalissi, gli ultimi. Ciò che rimane dei 30.000 trentino-tirolesi partiti per il Brasile. Trento, Curcu & Genovese, 2020, pp. 158, €18.
Presentare convenientemente l’autore è impegnativo: una trentina di libri, fra poesia, un romanzo - “Il Tirolese” - che avrebbe meritato risonanza nazionale -, 21 anni da giornalista all’Adige (“per campare”) e soprattutto le ricerche sull’emigrazione trentina in America Latina, che fanno di lui un’autorità in questo campo. Per non parlare della sua attuale collaborazione con QT (per amicizia, in questo caso), che continuerà ancora dopo il suo ennesimo ritorno in Brasile, avvenuto qualche settimana fa.
Di emigrazione tratta anche quest’ultimo lavoro, che si propone di verificare se gli ultimi discendenti dei Trentini sbarcati in Brasile a partire dal 1874 conservino tuttora qualcosa (e quanto) della loro cultura di origine, o se invece la lunga permanenza in terra di emigrazione abbia reciso ogni legame con la madrepatria.
Il fenomeno migratorio in quell’ultimo quarto di secolo ebbe diverse cause concomitanti: dalle malattie del baco e della vite al distacco dall’impero di Lombardia e Veneto, all’introduzione di una imposta fondiaria intollerabile per i piccoli contadini, che spesso si videro costretti a vendere. Una prima “apocalisse”, la miseria, cui ne seguì una seconda, quando, appena sbarcati, dovettero fare i conti con una serie di situazioni penose: clima soffocante, promiscuità, cibi sconosciuti, animali selvatici, malattie epidemiche...
Per alcuni il sogno di un Brasile terra promessa diventò così un incubo, tanto più per chi andò a lavorare nelle grandi fazendas di caffè. “Il governo brasiliano – scrive Grosselli – doveva attirare famiglie contadine europee offrendo loro terre a basso prezzo, ma ciò doveva costituire uno specchietto per le allodole e far confluire invece la gran parte dei flussi nelle piantagioni private, al servizio del latifondismo”. E qui le condizioni di vita e di lavoro non erano molto diverse da quelle degli schiavi neri, che i nuovi arrivati dovevano sostituire dopo l’abolizione della schiavitù nel 1888.
Alla breve introduzione storica segue una narrazione che Grosselli ricava dagli appunti presi nel 1986 durante un suo soggiorno di tre mesi in una comunità di discendenti di emigrati trentini a Novo Tyrol (stato di Paranà), ospite della famiglia patriarcale del vecchio Aristides Gaio. È un racconto “in soggettiva”, dove anche l’autore è presente, con le sue difficoltà nei rapporti con le persone (“Era dura spiegargli che ero qui per studiarli...”) e con l’isolamento di quei luoghi (“Talvolta dovevo correre lungo il Paranà fino ad Araruna per cercare N. e quietarmi in lei senza respiro”): i giovani si sono trasferiti in città, i lavori agricoli procedono secondo tecniche antiche e l’impressione è quella di un mondo in via di estinzione.
Ma ecco la domanda: “Possiamo trovare in Brasile ciò che abbiamo perduto in Trentino? E quello che troviamo oggi nelle cosiddette ‘comunità neotrentine’ quanto contiene di brasiliano e di trentino, di italiano e di portoghese (ma anche di africano e di indio, o di tedesco o magari di ucraino)?”.
La lingua parlata dai suoi ospiti era quella del Brasile, mentre dell’antico dialetto – con inserimenti portoghesi – non restava granché: pochi erano in grado di usarlo correntemente. “Era finita la storia trentina in loro. - concludeva l’autore - Rimanevano certi usi, certi costumi, certi tratti fisici degli uomini e del paesaggio agricolo. Ma mi pareva, in quel 1987, finita la storia dei Trentini in Brasile”.
Da allora passano trent’anni e durante un soggiorno di 40 giorni all’interno di altre piccole comunità del sud del paese (negli stati di Santa Catarina, Rio Grande do Sul, Espirito Santo, São Paulo), Grosselli raccoglie nuove corpose testimonianze, in un racconto intrecciato con interviste che indagano sia l’oggi che le memorie del passato.
A parte la suggestione presente nei resoconti di vite umili, coraggiose, aspre, emerge una sorpresa: la storia di Trentini “tropicali”, nota Grosselli, non è finita come aveva ipotizzato. Molto del Brasile, naturalmente, ha invaso la quotidianità, dal mate al cafezinho, ma resistono la coltivazione della vite e la polenta. Rimane l’affermazione di un’identità che associa alla brasiliana quella trentina, o tirolese. Rimane soprattutto, per molti, l’uso di questo o quel dialetto trentino come lingua madre; un dialetto, chiamato taliàn, che comprende occasionali inserimenti in portoghese. “El soalho (pavimento) l’era de tigiòi (da tijolo, mattone)” ricorda Angelo Vitti. E nel racconto di Brigida Cainelli troviamo addirittura un verbo portoghese coniugato alla trentina: “Ne cansàven” (ci stancavamo).
Questo corposo residuo di trentinità si riscontra ovviamente soprattutto in piccoli centri, in comunità coese che non si sono (ancora) sciolte nel mare delle metropoli. Poi ci sono gli altri, quelli che “si urbanizzarono e contribuirono allo sviluppo del settore industriale. Erano, naturalmente, ormai brasiliani, così come i loro fratelli che la terra la persero e furono costretti a proletarizzarsi o a lottare per riottenerla, magari aderendo al movimento dei Sem Terra, per molti anni guidati dal pronipote di immigrati di Terragnolo, João Pedro Stedile”.