“Alcide Davide Campestrini. Il sacro, il tragico e il quotidiano”
Un pittore tra accademia e committenza.Trento, Palazzo Trentini, fino al 20 novembre.
Questa mostra contribuisce a colmare una lacuna di conoscenza, non solo tra il largo pubblico, sull’opera di un pittore nato nella Trento austroungarica, nel 1863, divenuto milanese d’adozione, ma che non ha mai tagliato i legami con la sua terra di origine. Si tratta, sorprendentemente, della prima antologica di Alcide Davide Campestrini in uno spazio pubblico, come spiega Fiorenzo Degasperi che ha svolto il complicato lavoro di ricerca delle opere, sulla scorta anche dell’indagine conoscitiva effettuata nell’ultimo decennio dai galleristi Isidoro e Warin Dusatti di Rovereto.
Bisogna dire che Campestrini, giunto a Milano nel 1881, per evitare – lui di famiglia profondamente irrendentista – l’arruolamento nelle truppe austriache, e frequentati i corsi dell’Accademia di Brera, sviluppò poi il suo percorso artistico dividendosi tra l’attività di insegnamento del disegno e il lavoro di pittore su commissione, partecipando sì a premi e collettive, ma senza impegnarsi con qualche gallerista in mostre personali, che infatti non compaiono nel suo curriculum. La maggior parte dei suoi dipinti è quindi tuttora in mano di privati.
Il rapporto con la committenza, non solo privata, se da un lato racconta di un’attività ancora svolta nell’ottica dell’antica “bottega” (anche i figli si affiancheranno nell’attività), dall’altro aiuta a spiegare la pluralità di generi frequentati dall’artista, qui ben documentati: la figura, il ritratto, la scena quotidiana, il paesaggio, il tema sociale, quello patriottico e storico.
E non è un caso che sia proprio il ritratto, più degli altri ambiti di genere, a mettere in evidenza certe capacità di lettura del vero già riconosciute in Campestrini, e premiate, ai tempi dei suoi studi all’accademia. A parte il volto dello scultore e amico Andrea Malfatti (1912), in possesso del Mart, e la figura di Francesco Ambrosi (1903), alla Biblioteca Comunale di Trento, si vedono qui, tra gli altri, “La Parona” (1892), “Ritratto maschile barbato” (1900), un primo piano della moglie (1910) e degli autoritratti, tutte opere che sanno evocare presenze vive.
Siamo, beninteso, nel pieno alveo della tradizione. Pur trovandosi ad operare nella fase storica in cui nascono e si succedono profondi movimenti di rinnovamento artistico a livello internazionale – primo fra tutti l’impressionismo, che fa la sua comparsa a Parigi nel 1874; poi in Italia il divisionismo, con Segantini, dal 1886 – l’arte di Campestrini rimane ancorata agli apprendimenti dell’accademia, tutt’al più inalando, senza eccedere, il clima milanese della scapigliatura e, tardivamente, aprendosi nel paesaggio a suggestioni post-impressioniste. Ma è proprio quest’ultimo genere a rivelarsi meno convincente, come se l’artista fosse meno a suo agio nella ricerca cromatica e nella pittura “en plein air” che nel disegno e nello studio dei volti.
L’atteggiamento tradizionale, non incline a cogliere e osservare la modernità, tanto meno a farne la critica, emerge anche dal modo in cui interpreta il quotidiano e la tematica sociale, che pure si fa impellente negli ultimi decenni dell’Ottocento e vede pittori come Telemaco Signorini, Angelo Morbelli, Pellizza da Volpedo creare memorabili opere di denuncia e di riscatto. Qui è invece l’ambito della tragedia famigliare ad avere il sopravvento, quale è la perdita di un bambino, in un quadro di grandi dimensioni, denso di pathos (“La morte del figlio dell’operaio”, ante 1902).
Ma è probabile che, come notò Gabriella Belli, proprio l’aver concepito il lavoro di pittore principalmente come risposta alle richieste di una committenza, specie se pubblica, abbia in definitiva imbrigliato l’estro nativo di Campestrini entro l’eccessiva compostezza del “lavoro ben fatto”, come vediamo mettendo a confronto la freschezza del bozzetto in presa diretta e l’opera finale dedicata alla manifestazione svoltasi in piazza del Duomo per l’annessione di Trento all’Italia (1920-1926), il primo in collezione privata, il secondo al Museo Storico del Trentino.