“Oriente Occidente 2020”
Un quarantennale da post-quarantena
Doveva essere un anno speciale per il festival Oriente Occidente - e in un certo senso lo è comunque stato -, ma il rispetto delle regole dettate dall’emergenza Covid, che ha portato quasi al collasso il settore dello spettacolo dal vivo, ha inevitabilmente costretto gli organizzatori a un repentino cambio di rotta rispetto a quanto inizialmente programmato. E immaginiamo non sia stato facile per un Festival abituato a ragionare a livello globale, ripiegarsi su delle proposte decisamente più locali, lasciando momentaneamente da parte quell’Oriente che fin dal principio è stato un perno portante d’internazionalizzazione e di fascinazione dell’intera kermesse.
Nonostante il tempo passato e le trasformazioni subite, Oriente Occidente continua a rinnovare di anno in anno la sua forza propulsiva, adattandosi alle difficoltà e ribadendo la necessità di un atto creativo che si fa allo stesso tempo poetico e politico: sopratutto in questa ultima edizione, dove il fatto stesso di esserci e di provare a scardinare - con le dovute cautele - la paura dell’incontro con l’altro, ha costituito un tentativo di riappropriazione dello spazio pubblico e della relazione tra i corpi anche attraverso soluzioni innovative che, pur nella distanza, hanno creato un’illusione di vicinanza e intimità tra spettatori e performer.
È il caso del “peep show” allestito nella piazza del Mart, uno spazio scenico costituito da una piattaforma circolare circondata da 14 cabine vetrate individuali, abitato di giorno in giorno da danzatori diversi, e del “M.A.D. Museo Antropologico del Danzatore”, che ha permesso al pubblico di aggirarsi e curiosare tra le mura di precarie casette avvolte nel cellophane, dentro alle quali si sono esibiti gli interpreti del Balletto Civile.
Da una visione estremamente ravvicinata e concentrata a uno sguardo dall’alto quasi casuale, quello proposto da Azioni Fuori Posto, che ha ambientato la performance in quattro zone di periferia, invitando preventivamente il pubblico a seguire l’azione dalla propria finestra o dal proprio balcone (veri e propri protagonisti della socialità durante il lockdown). I posti a teatro sono stati invece intervallati da sagome di cartone dei grandi della danza, che hanno tenuto compagnia agli spettatori isolat nella platea del Teatro Zandonai.
Gli effetti della pandemia non hanno modificato solo le modalità di fruizione ma anche la genesi stessa di alcuni spettacoli, costringendo i coreografi a ripensare le proprie abitudini creative e a modificarne la messa in scena. Ed ecco allora la predominanza assoluta degli assoli che ha connotato questa edizione del Festival, trovando il proprio momento apicale nei Centennial solos dedicati ad omaggiare e, allo stesso tempo, ricostruire la prolifica carriera del grande coreografo americano Merce Cunningham, compagno di vita e di arte dell’altrettanto celebre compositore John Cage, a cui è stato dedicata anche una serata di approfondimento musicale. Cage e Cunningham furono tra i primi a sperimentare l’arte della casualità nella composizione, eredità che in qualche modo viene oggi portata avanti, anche se in forme meno esoteriche e più tecnologiche, da coreografi contemporanei come Pontus Lidberg, direttore artistico del Danish Dance Theatre, a cui è stata affidata l’apertura del festival.
In Centaur l’autore ha proposto una singolare commistione tra le potenzialità umane e quelle virtuali, affidando di fatto la regia dello spettacolo a un’intelligenza artificiale di nome David, che tramite sequenze casuali di musiche e passi ha condizionato lo sviluppo in scena della coreografia, a dire il vero in maniera piuttosto ripetitiva.
Sempre giocata sul caso e su un’interazione forte con il pubblico la divertente performance proposta dal duo CIE MF, che in C’est pas grave ha invitato gli spettatori a sottolineare i momenti salienti dello spettacolo lanciando sul palco aeroplanini di carta appositamente costruiti per l’occasione e consegnati all’ingresso come fossero confezioni di pop-corn.
Un’ironia più sottile e disincantata, forse anche per la maturità dei coreografi coinvolti nella creazione, permea il lavoro solitario di Pep Ramis (ispirato dai versi, ripetuti a mo’ di mantra, di Erri de Luca) e della Compagnia Abbondanza-Bertoni, che in Hyenas mette in scena un’umanità trasfigurata e in costante lotta con i propri istinti animaleschi.
Altrettanto ipnotico, ma venato di un’atmosfera di surrealtà, il lavoro di Marcos Morau, la cui ritualità, sia corporea che sonora, sembra voler dar vita ad una nuova realtà.
In un filone di ricerca e sperimentazione sulle possibili sfaccettature espressive del corpo si collocano anche i giovani coreografi italiani, quest’anno particolarmente numerosi, con esiti multiformi che, in alcuni casi, denotano la necessità di trovare e affinare un proprio peculiare linguaggio stilistico. Confermata infine qualche proposta di piazza più spettacolare e il ricco programma della sezione Linguaggi, dedicato ai cambiamenti sociali, geopolitici e ambientali portati alla ribalta dal Covid.
Una quarantesima edizione del festival che nel complesso è apparsa un po’ sotto tono rispetto alle aspettative, ma che merita comunque un plauso per lo sforzo organizzativo portato avanti nel tentativo di far fronte all’emergenza. Con un pizzico di nostalgia per i “fasti” del passato, ricordati in due suggestive mostre fotografiche affidate ai fotografi roveretani Paolo Aldi e Fulvio Fiorini, auspichiamo che Oriente Occidente possa far tesoro delle difficoltà del tempo presente per risollevarsi e lanciare nuove sfide per il futuro.
Pontus Lidberg, “Centaur”
Marcos Morau, “Sonoma”