Una “calda” estate, come nel ‘67
Stati Uniti: fra poliziotti con licenza di uccidere e neri arrabbiati si inseriscono le opposte provocazioni di bande razziste e di gruppi radicali violenti. Da “Una Città”, mensile di Forlì
L’America ci è già passata. Oggigiorno le persone sembrano non ricordarsi della “calda” estate del 1967, quando le sommosse si diffusero dalla costa est alla ovest e Rap Brown coniò l’espressione “Burn Baby Burn!” (Brucia piccola, brucia) a Newark, nel New Jersey. Si riferiva allo squallore delle case popolari in cui tanti afroamericani vivevano e alle topaie che non potevano sopperire nemmeno ai bisogni primari della comunità: acqua, elettricità, raccolta rifiuti, negozi, lavoro, tutela contro il traffico di droga per le strade, scuole sicure.
Non c’è un singolo indicatore circa la qualità della vita in cui gli afroamericani non siano svantaggiati: dalla mortalità infantile all’ipertensione, dall’istruzione ai salari, dall’aspettativa di vita all’incarcerazionea, ovviamente. Il che spiega la rabbia di molti riguardo alle proprie condizioni di vita. Al centro di queste proteste non c’è solo la giustizia per George Floyd e per quelli che l’hanno preceduto e seguito, ma il fatto che “quando è troppo è troppo”.
Per quanto riguarda le tensioni fra la comunità nera e la polizia, gli uomini in blu sono visti come un esercito occupante. E perché non dovrebbero? La principale causa di morte fra gli afroamericani è ricevere una pallottola dalla polizia; un uomo nero su tre fra i 18 e i 35 anni o sta attendendo di essere processato o marcisce in galera o cerca di tirare avanti in libertà vigilata. Inoltre, uno su tre degli afro-americani uccisi dalla polizia erano disarmati. Dal 2005 solo 35 agenti di polizia sono stati condannati in seguito a tali omicidi. Per cui non è stata una sorpresa per la comunità nera scoprire che Derek Chauvin, il poliziotto le cui azioni hanno ucciso George Floyd, era stato oggetto di numerose lamentele da parte dei cittadini senza mai essere punito. Ciò aiuta a spiegare la rabbia che ha accompagnato la sua sentenza di omicidio di terzo grado (invece che di primo grado) e il fatto che gli altri tre poliziotti coinvolti nel caso, indifferenti circa le condizioni di Floyd, siano stati incriminati solo adesso. Lo stesso trattamento è stato riservato alla maggior parte degli agenti di polizia che negli anni hanno causato la morte di un cittadino di colore. In breve, il bisogno di un cambiamento radicale è reale da tempo.
Tradizionalmente i poliziotti sono considerati degli eroi nei film, nelle serie tv, nei videogiochi e dai politici di destra, e alcuni di loro lo sono, ma di sicuro non tutti e neanche la maggior parte. C’è un costante invito a empatizzare con la polizia: è un lavoro duro, ma se lo sono scelto e i poliziotti sono servitori dei cittadini, non il contrario. Se però l’industria culturale dell’establishment insegna che la polizia è al di sopra della legge, non c’è ragione per cui essa non dovrebbe crederlo.
Qui è dove entra in gioco il razzismo nel conflitto tra la polizia, che si vede protettrice della legge e si aspetta un po’ di tolleranza dalla cittadinanza (bianca), e coloro che sono stati arbitrariamente definiti come indifferenti o peggio alla legge, cioè gli afroamericani.
Di fronte a tutto questo è facile per alcuni elementi della comunità nera e altre persone di sinistra con inclinazioni anarchiche cadere nella violenza a cui dovrebbero opporsi e che è diventata evidente in queste proteste.
La violenza non è un simbolo su cui discutere, ma una realtà da evitare: le persone si fanno male, le attività commerciali vengono rovinate, i ragazzi arrestati e la catarsi è sempre passeggera. Sono sempre i più vulnerabili - le persone di colore - a venir feriti, a guardare le loro aziende bruciare, a essere arrestati. Mi è stato riferito di alcuni messaggi su Twitter riguardo a una donna che cercava di impedire che alcuni ragazzi bianchi istigassero alla violenza fuori da Baltimore Hall, una residenza per studenti. La donna diceva a gran voce che stavano mettendo degli afroamericani in pericolo e i ragazzi bianchi hanno risposto: “Ti ammazzeranno in ogni caso!”.
Antifa e Black Box
Sono sicuro che gli “Antifa” (antifascisti) siano un gruppo eterogeneo, tuttavia non ho mai incontrato un sostenitore dell’anarchico “Black Box” che non fosse bianco e (generalmente) privilegiato. Non ne ho neanche mai incontrato uno che sapesse che lo slogan degli Antifa, “Smash the fascist where he stands” (Schiaccia il fascista ovunque si trovi) era usato dal Partito comunista tedesco nel 1929. Potrei sbagliarmi, ma non credo che questa strategia abbia funzionato. Vale lo stesso per un altro vecchio slogan fallito di estrema sinistra: “Peggio è, meglio è”. Anche l’occhiata più frettolosa alla storia suggerisce che il peggio non genera il meglio, ma solo il pessimo.
Come accadde nelle rivolte che sconvolsero 159 città nel 1967 e in quelle di Los Angeles in seguito all’aggressione di Rodney King da parte della polizia, una minoranza significativa di manifestanti neri ha preso parte alle sommosse e al saccheggio. Non è onesto ignorare questo fatto, se non altro perché costoro hanno una fetta di responsabilità per ciò che è successo alle attività e ai quartieri delle persone nere. Il fatto che siano stati i nazionalisti bianchi ad agire come provocatori non cambia la questione; da fanatici come loro ci si aspetta la violenza. Non vale la pena parlare di loro.
Ma con gli altri gruppi è diverso. La rabbia legittima non è una scusa per la violenza illegittima, soprattutto perché i razzisti favorevoli alla politica “law and order” useranno quest’ultima per confermare i loro peggiori pregiudizi. Inoltre converte i possibili simpatizzanti delle proteste in critici severi. La violenza istintiva non è espressione di potere, ma di debolezza, disperazione e frustrazione.
Il fatto che il nostro presidente abbia etichettato come “organizzazione terroristica professionista” gli Antifa, un movimento completamente decentralizzato, non dovrebbe rendere gli altri ciechi circa le sue tattiche irresponsabili e le sue politiche settarie. Senza dubbio Trump userà la loro violenza come un pretesto per introdurre misure radicali per reprimere le libertà civili, i diritti al voto e i programmi di sussidio. Ha già cominciato. La sua nuova enfasi sull’ordine pubblico, il suo fare affidamento sulla repressione militare e sui cittadini armati come forze supplementari è un pericoloso presagio di ciò che ci aspetta, specialmente se Trump dovesse perdere alle elezioni presidenziali di novembre.
Le sommosse indiscriminate compiacciono non solo la base reazionaria di Trump, ma anche quei razzisti segreti che non ammettono pubblicamente le loro scelte nella cabina elettorale.
Naturalmente, la grande maggioranza dei giovani manifestanti non sono né terroristi né rivoluzionari. Vogliono solo giustizia. Assistere all’orribile omicidio di George Floyd online ha riportato loro alla mente gli altri omicidi di neri da parte della polizia. Sono infuriati per via di un corpo di polizia e di un governo sistematicamente razzisti, la cui risposta al coronavirus non è mai arrivata al proletariato e ai meno abbienti. Il vecchio proverbio “Quando l’America bianca prende il raffreddore, l’America nera muore di polmonite” è vero come non mai.
Sicuramente, date le circostanze, la violenza rappresenta una tentazione e solo uno sciocco sosterrebbe che le persone di colore dovrebbero preoccuparsi della suscettibilità dei liberali e moderati bianchi. Coloro che cedono alla tentazione però scambiano l’impeto del momento per potere politico, i social media per vere organizzazioni e dei brutti graffiti per un autentico programma. Talvolta la violenza può essere giustificata, ma di rado e solo come ultima risorsa, e non è questo il caso. Inoltre, se impiegata, deve servire per un chiaro fine comune, non come strumento di profitto per piccoli criminali. Si raccoglie ciò che si semina: maggiori sono la violenza e la rabbia non focalizzata, maggiore sarà la probabilità che la rivolta provochi una contro-rivolta.
Troppo spesso le chiacchiere sulla violenza sono state una scusa per non intraprendere del serio attivismo politico come quello del reverendo William Barber e la sua campagna Poor People’s Campaign e una moltitudine di altre organizzazioni. Lavorare con loro però non è clamoroso come lanciare una bomba molotov; un reale cambiamento richiede disciplina e impegno a lungo termine.
C’è un bisogno urgente di progetti positivi, che possano migliorare la trasparenza e la responsabilità delle forze dell’ordine. Alcuni suggerimenti potrebbero includere la richiesta di controlli più approfonditi, l’eliminazione della vigilanza indipendente, la raccolta di suggerimenti da parte dei poliziotti più decorati, in particolare le donne e (sì!) aumentare retribuzioni e benefit per attrarre candidati. Si potrebbe anche proporre di sostituire i comitati di revisione nazionali con comitati civili locali e di creare un nuovo ruolo per le relazioni tra comunità e polizia.
Proprio in un momento in cui il nostro patologico bugiardo e megalomane comandante in capo si schiera con le forze più retrograde dell’ordine pubblico, i manifestanti devono unire i mezzi che impiegano con i fini che vogliono raggiungere, cioè la giustizia, la parità e la pace, proprio come fecero Martin Luther King e Nelson Mandela ai loro tempi.
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Stephen E. Bronner è docente di Scienze politiche alla Rutgers University di New Brunswick (New Jersey).