Trump: per chi suona la campana
La campana suona per te, scriveva Hemingway. Suona per noi. Il populismo, il voto di pancia, le città sagge e le zone agrarie arretrate: tutte cose un po’ vere. Ma che ci sembrano somigliare alla patetica invettiva di Saragat all’indomani della sconfitta, “destino cinico e baro”, se la gente non ti vota, è colpa sua. Se contadini, operai, sottoccupati e precari diffidano del potere e anche dell’intellettualità delle metropoli, di chi è la responsabilità?
C’è poco da girarci intorno. Da trent’anni a questa parte c’è stata una sempre più diseguale distribuzione della ricchezza. Anche in Europa, anche in Italia. Accompagnata, da noi, da un ritornello inquietante, anzi angosciante: “non possiamo più permetterci…” Non possiamo più permetterci di cambiare cellulare ogni anno? No, molto peggio: non possiamo più permetterci il posto fisso, non possiamo più permetterci una sanità gratuita, non possiamo più permetterci una pensione decorosa. Ma perché mai?
Appunto, perché? C’è chi risponderà che è colpa della globalizzazione, chi dell’Europa, chi dell’ineguale distribuzione della ricchezza, chi della sinistra che non svolge più il suo compito. Di certo l’elettore impoverito, o che teme di diventarlo, o che paventa il futuro dei figli, non si fida più. Non si fida dell’elite, della classe dirigente, dei partiti, dei corpi intermedi: i cui membri vede tranquilli, al sicuro, occupati solo a meglio spartirsi potere, ricchezza, successo.
Se poi il popolo – guarda un po’ - diventa populista, e sceglie soluzioni peggiorative (non ho dubbi che Trump sarà peggio di Clinton) e talora tragiche, è proprio tutta colpa sua?
Così l’Italia oggi. Con un referendum diventato l’alfa e l’omega della vita della nazione, un premier guascone, un’opposizione “accozzaglia” (non ha sbagliato, nella definizione, lo sbruffoncello di Firenze) un ceto dirigente che si è permesso di dissipare, nel sistema bancario, il denaro di tutti, e lo ha potuto fare, almeno finora, impunemente. È difficile avere un minimo di fiducia in tale insieme di persone. Che peraltro, la fiducia ormai non ci provano neanche più a chiederla per i propri meriti, ma per i demeriti altrui, agitando spauracchi: Berlusconi, il comunismo, Grillo, la deriva autoritaria.
Un discorso analogo, ma a parte merita il nostro Trentino. Dove i ricchi anni dell’Autonomia privilegiata, ma anche una accorta politica di welfare e una ramificata rete di solidarietà sociale, hanno permesso di ammorbidire le disuguaglianze ed ammortizzare quasi del tutto i colpi della crisi. Questo è un merito della popolazione e della sua cultura, come pure dell’insieme della classe dirigente (lo abbiamo già riconosciuto anche allo stesso Lorenzo Dellai, che peraltro è stato il Grande Dissipatore dei miliardi facili dell’Autonomia). Ora però i tempi sono cambiati, la competitività è aumentata, i soldi pubblici sempre meno, e tutta una serie di nodi vengono al pettine.
Il primo, grossissimo ed emblematico, è la cooperazione. Un mondo amplissimo (oltre 100.000 persone, più di 500 aziende) decisivo, con alcune eccellenze (non è un caso se una parte cospicua del credito cooperativo italiano si aggrega, diffidando di Roma, attorno alla Cassa Centrale trentina). Ma che attraversa una crisi profondissima, come illustriamo nella coverstory a pagina 8. Una crisi di ceto dirigente, da anni abbarbicato attorno alle proprie posizioni di potere; spesso incapace (vedi proprio il caso del Sait descritto in questo numero) ma autoprotetto attraverso una ferrea solidarietà di casta, complicità ed assistenzialismi della politica (i nostri lettori ricorderanno il caso della Cantina LaVis). E soprattutto – qui è il lato più preoccupante – legittimato dalla stessa base sociale, incapace di riconoscere il merito e in base ad esso selezionare i dirigenti. Il drammatico flop del Sait, con il suo presidente Dalpalù appena rieletto (e bloccato nella corsa al vertice della Federazione solo dagli articoli di questo piccolo giornale, il che la dice lunga sull’esistenza di filtri interni) il flop del Sait dicevamo, è anche un flop della democrazia cooperativa. Il che apre tutta una serie di inquietanti interrogativi: non solo sulle oligarchie, ma anche sulla popolazione, sulla sua cultura.
Se poi constatiamo che di questa tematica la politica non si è proprio occupata se non con minimali interrogazioni dell’ultima ora (“non vuoi mica che mi metta contro Schelfi?” mi diceva una consigliera provinciale due anni fa); l’università se ne è occupata, ma solo per drenare soldi (“Perché c’è opposizione al quarto mandato di Schelfi?” veniva chiesto in tv al massimo studioso accademico della cooperazione, che rispondeva “Perché in Trentino vogliamo farci del male”); la stampa solo recentemente ha individuato il problema; se consideriamo tutto questo ci accorgiamo di come gli anticorpi siano troppo pochi. A prevalere sono le omertà, all’interno di un ceto dirigente e intellettuale troppo chiuso in se stesso.
La campana suona per noi.