Come ti saccheggio i beni comuni
...e in cambio, ti regalo mascherine. Due conti su quanto i padroni del porfido incamerano dagli immotivati sconti sui canoni.
A fine maggio appariva una notizia da cui può partire un’utile riflessione: a Fornace “le aziende del porfido regalano mascherine”, con tanto di lettera accompagnatoria da parte del Sindaco e dell’assessore alle cave. Nella quale questi amministratori sottolineavano come l’iniziativa fosse volta “a concretizzare una mission sociale che mira a radicare il comparto estrattivo nel tessuto sociale del territorio”, contribuendo “a sradicare l’idea diffusa di un settore a cui si ricollegano esclusivamente messaggi negativi”.
Quali “messaggi negativi”? Ovviamente ci si riferisce all’inchiesta sulle infiltrazioni mafiose avviata su queste pagine nel maggio dello scorso anno e prima ancora dal quotidiano L’Adige, che peraltro hanno preso le mosse dalle autorevoli affermazioni contenute nella relazione conclusiva della Commissione parlamentare antimafia presieduta dall’on. Rosy Bindi.
Nonostante condanne definitive, come quelle per il pestaggio di un operaio cinese avvenuto nel 2014 e la condanna in primo grado a 6 anni per estorsione nei confronti dei dipendenti dell’amministratore di una società concessionaria di cava, questi signori parlano di “pregiudizi” e non hanno sentito fin qui il dovere di esprimere alcuna presa di distanza da simili comportamenti.
D’altronde perché meravigliarsene? Sindaco ed assessore sono entrambi figli di imprenditori del porfido e concessionari di cava di grosso calibro, quegli imprenditori che negli ultimi venticinque anni sono ricorsi alla massiccia esternalizzazione delle lavorazioni a ditte artigiane che, anche attraverso l’impiego spregiudicato di manodopera extracomunitaria, hanno consentito una efficace difesa dei margini di profitto attraverso la compressione del costo del lavoro, ricorrendo spesso a lavoro grigio e nero.
Chi meglio della criminalità organizzata poteva garantire la gestione di questa area grigia?
La relazione antimafia di cui sopra parla appunto di “persone in relazione con le cosche” quali “autori di reati economico-finanziari, come la bancarotta fraudolenta nei settori dell’edilizia e del porfido”, sottolineando appunto lo “sfruttamento illegale di manodopera”.
Il fatto che gli amministratori comunali siano diretta espressione della lobby dei concessionari come nel caso di Fornace, o comunque condizionati pesantemente dalla stessa, pone però un altro grave problema che caratterizza da mezzo secolo questo settore, vale a dire il pesante conflitto d’interessi evidenziato nei Piani anticorruzione dal segretario comunale di Lona-Lases dott. Marco Galvagni, nella sua veste di Responsabile anticorruzione, e per questo fatto oggetto di particolari attenzioni da parte dei sindaci dell’ex gestione associata di Albiano, Lona-Lases, Segonzano e Sover.
Bisogna infatti sapere che le cave insistono in gran parte su territorio comunale e frazionale e il loro sfruttamento è stato dato in concessione ad imprenditori locali che, in quanto anche amministratori comunali, hanno sempre cercato di tutelare il loro interesse rinnovando tali concessioni per oltre mezzo secolo e mantenendole quindi nelle mani di un ristretto numero di famiglie. Famiglie che si sono enormemente arricchite proprio grazie al fatto che, in assenza di aste ad evidenza pubblica, hanno potuto godere di canoni di concessione calmierati, ovviamente a danno della collettività.
Basti pensare che i concessionari versano mediamente ai Comuni un canone di circa 5 euro/mc di roccia estratta, quando da quel metro cubo di roccia si ricava come minimo un valore di semilavorato grezzo pari a 73 euro e quindi, adottando i parametri del mercato europeo (canone compreso tra il 18 e il 22% sul valore del semilavorato grezzo), il canone avrebbe dovuto ammontare ad almeno 15 euro/mc.
Se consideriamo che attualmente vengono estratti circa 1 milione di metri cubi all’anno, si può facilmente vedere quanta ricchezza – almeno 10 milioni ogni anno - viene sistematicamente sottratta alle comunità e va a finire, come facile guadagno, nelle tasche dei concessionari. Possono ben permettersi di regalare le mascherine, non vi pare?
Quel che è peggio, però, è che le nostre denunce relative alle violazioni ai danni dei lavoratori e delle comunità, in parte consentiti anche da una legislazione provinciale che non a caso lasciava ai Sindaci, espressione della lobby, ampi margini di discrezionalità, non abbiano trovato ascolto da parte delle organizzazioni sindacali e men che meno da parte di quel centro-sinistra che fino a ieri governava la Provincia di Trento.
Peggio ancora, il Partito Democratico attraverso l’allora assessore provinciale all’industria Alessandro Olivi, con il supporto attivo della Fillea-Cgil, si è affrettato a modificare la legge per sbarrare la strada ad una proposta di revisione della stessa avanzata nella primavera del 2016 dal consigliere provinciale del M5stelle Filippo Degasperi ed elaborata con il supporto del Coordinamento Lavoro Porfido.
Così, nel febbraio 2017, il Consiglio provinciale ha modificato la legge in vigore dal 2006, mettendo al riparo i concessionari e gli amministratori locali dalle possibili conseguenze degli esposti che nel frattempo lo stesso Coordinamento aveva presentato alla Procura della Repubblica in merito ad evidenti violazioni e sospetti abusi d’ufficio.
Uno dei più sfacciati provvedimenti della nuova legge è stato quello volto a togliere dai guai gli amministratori locali per il mancato adempimento relativo agli obblighi di tutela occupazionale previsti dalla legge del 2006. Essa prevedeva infatti che all’atto dell’ennesima proroga delle concessioni per un massimo di ben 18 anni - provvedimento approvato dai Consigli comunali nel 2010-11 - i Comuni avrebbero dovuto vincolare i concessionari al mantenimento dei livelli occupazionali stabilendo tale vincolo nei disciplinari per la durata della concessione. Un passaggio saltato a piè pari da tutte le amministrazioni comunali della zona, che non può avere avuto alcun altro fine se non quello di mantenere gli operai in stato di soggezione di fronte ai datori di lavoro attraverso il ricatto occupazionale.
Ebbene, la nuova legge voluta dal centro-sinistra e sostenuta dalla Cgil, ha modificato i termini temporali di tale obbligo da parte dei Comuni, spostandone l’attuazione dal 2010-11 al 31 dicembre 2017 e consentendo ai Comuni di stabilire la possibilità per le aziende di riduzioni della manodopera dipendente fino al 60% rispetto ai livelli occupazionali esistenti al momento della proroga delle concessioni.
Di cosa meravigliarsi se in un tale affastellamento di omissioni, condizionamenti e complicità, che si protrae da mezzo secolo, avesse trovato terreno favorevole pure la ‘ndrangheta?
Così come questi amministratori comunali in perenne conflitto d’interesse non hanno costituito alcun argine a una tale penetrazione, non è pensabile che gli stessi possano contribuire a disvelare una eventuale presenza di organizzazioni criminali. Va aggiunto che purtroppo nemmeno i lavoratori, disillusi e ridotti alla più totale passività sindacale, possono in questo momento costituire un valido elemento di contrasto, anche se tali presenze hanno, ed avranno sempre più, effetti negativi sulle loro condizioni di lavoro e di vita.
Ci anima però la speranza che all’interno delle comunità locali ci siano ancora persone in grado di indignarsi e, superando la passività e l’omertà dilaganti, di impegnarsi per la possibilità di un diverso futuro.