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QT n. 7, luglio 2020 L’editoriale

L'Italia del dopo contagio

Il programma: discutere di programmi, per rimandare le decisioni, a livello nazionale e locale

Italia fase 2 (o 3? si è un po’ perso il conto). Dal trepido entusiasmo della nuova sfida alle uggiose difficoltà di sempre, ora però più pericolose.

Abbiamo già espresso il nostro apprezzamento – peraltro condiviso dalla maggioranza dei cittadini – con il governo Conte nei difficili mesi della pandemia. Ora dobbiamo registrare le inadeguatezze, sempre più vistose.

Si è iniziato con l’inusitato florilegio pianificatorio: task force, tecnici, studi e programmi dai nomi fantasiosi, per finire con gli Stati Generali. A quel punto si è capito (e il governo ha capito che noi avevamo capito): si stava perdendo tempo. Il programma era discutere di programmi, per rimandare le decisioni. E infatti poi si è arrivati a decidere di non decidere.

Il Mes? Ne parleremo a settembre, quando in realtà dovrebbero già iniziare ad essere operative le provvidenze sanitarie da esso finanziate: se il Covid torna in autunno, è quello il tempo per iniziare a discutere di come finanziare la ristrutturazione della sanità?

Tutto il balletto è assurdo. Per la prima volta in Italia si possono fare investimenti per centinaia di miliardi, ce n’è assoluto bisogno, e ci si trastulla rimandando le discussioni in merito.

Situazione grave, ma poco seria. La cui radice sembra tutta iscritta (ma forse ci sbagliamo) nel mondo della politica. Nella convivenza forzata di due entità politiche che spesso paiono agli antipodi. Da una parte quel che resta, dopo mesi nei salotti del potere, del populismo purificatore dei 5 Stelle: antieuropeismo programmatico perché questa è l’Europa dei capitali, non dei popoli; giustizialismo (che per chi scrive non è un demerito, in un paese in cui la corruzione inquina molteplici ambiti); insofferenza verso i poteri irresponsabili, a iniziare dai concessionari autostradali; ambientalismo retrò, per cui si difendono a spada tratta gli olivi contagiati invece di progettare sul serio la nuova green economy.

Dall’altra il pragmatismo concreto, ma a rischio di immobilismo, del Pd, esemplificato da una delle metafore del buon Bersani: nella macchina statale bisogna intervenire, “ma con il cacciavite”, cioè cambiando il meno possibile. Un immobilismo che viene applicato anche ai valori di fondo, subito messi nel dimenticatoio (vedi ius soli, o in generale la questione migranti) se confliggono con qualche punto percentuale dei sondaggi, o con qualche impuntatura di questo o quell’esponente degli alleati.

La convivenza forzata dei due mondi potrebbe essere virtuosa, produrre declinazioni realistiche di altrimenti confuse esigenze di cambiamento; ma può anche essere paralizzante.

E qui il discorso passa alle capacità dei leader, o meglio, dei gruppi dirigenti. Il Pd ha saputo dare il meglio di sé nei rapporti con l’Europa, aggregando Conte (per ora) in un processo di riposizionamento degli interessi nazionali all’interno di quelli europei, peraltro ridefiniti in maniera virtuosa. I 5 Stelle invece stanno scontando l’inconsistenza dei metodi di selezione del proprio ceto dirigente.

In Trentino, con la pandemia (ne abbiamo lungamente scritto) Fugatti non è stato come Conte e neanche come Zaia. Però non ha fatto troppi danni. Con la nuova fase sembrano riemergere, e forse aggravarsi, i vecchi limiti.

Sulla sanità non si vede niente di nuovo, se non la dipartita del direttore generale dell’Apss Bordon, che viene lasciato andare senza che si prevedano sostituzioni o nuove politiche. Sul fronte dell’economia anche qui c’era una locale task force di esperti, incaricati di delineare le linee di una nuova ripresa, ma i risultati sono scomparsi in qualche cassetto. Indicazioni, quindi, zero. Se non il consolidamento delle chiusure festive degli esercizi commerciali, mero contentino clientelare ai piccoli negozi. Sulle nomine negli enti, forse scottati dai prevedibili contraccolpi di nomine fantasiose quanto improvvide come quella di Sgarbi, si è tornati all’usato sicuro. Anzi, all’usato usurato, con Malossini all’aeroporto Catullo, incuranti del suo pedigree giudiziario (il suo ultimo guaio – finanziamento illecito ai partiti – risale al 2009) e fidandosi della nomea di “esperto di turismo”. In realtà questo recupero dal cimitero degli elefanti è solo una nomina per stanchezza, sembra indicare l’esaurirsi della carica di rinnovamento che la giunta leghista aveva promesso.

In effetti sembra stanca la giunta Fugatti, esaurita nel tran tran, dopo aver provocato come unico cambiamento, il peggioramento delle condizioni di vita degli immigrati. Qui il programma sembra realizzato: chiuso il centro di Marco, buttati i richiedenti asilo sulla strada, una parte di questi si è messa a spacciare e molestare nel quartiere Santa Maria di Rovereto.

Fugatti brinderà, noi no.