Un processo deve arrivare in fondo
A chi prende un treno da Roma per arrivare a Milano non si può dire che il viaggio è terminato prima dell’arrivo...
Per dire cos’è e come funziona la prescrizione in materia penale, occorre dapprima dire, sia pure in via estremamente sintetica, cos’è il reato. Esso è un comportamento illecito – compiuto tramite un’azione o un’omissione – cui l’ordinamento giuridico fa conseguire, all’esito di una sentenza irrevocabile (non soggetta cioè alle impugnazioni ordinarie dell’appello e della cassazione) di colpevolezza, l’irrogazione di una pena, che, nei casi meno gravi di contravvenzione, è costituita da un’ammenda o dall’arresto, e, in quelli più gravi di delitto, dalla multa o dalla reclusione.
Perché un reato possa essere giudizialmente accertato e il suo autore esserne conseguentemente dichiarato colpevole con sentenza irrevocabile (ripeto: non più impugnabile), occorre che non sia trascorso dalla sua commissione un tempo determinato, fissato dal legislatore in modo diverso a seconda della sua gravità (a reato più grave corrisponde un tempo maggiore). Se tale sconfinamento temporale avviene, il reato si estingue per prescrizione, e cioè per il puro e semplice decorso del tempo.
Che significa che il reato è estinto? Che viene estinta la potestà statale di applicare la pena, che lo Stato rinuncia ad applicare la pena minacciata, anche se il reato sia stato effettivamente commesso. Facciamo un esempio semplice che aiuterà a meglio capire il meccanismo prescrizionale.
Se Tizio commette un abuso edilizio, edificando un immobile senza il necessario permesso di costruire, è stabilito un termine massimo entro il quale la sentenza irrevocabile di condanna debba essere pronunciata (entro 4 anni dalla commissione del reato, estensibile a 5 se sono intervenuti determinati atti che interrompono la prescrizione). Se questo tempo è trascorso senza che sia iniziata l’azione penale, senza cioè che lo Stato, tramite i suoi organi, abbia manifestato la volontà attiva di procedere contro l’autore del fatto, l’eventuale azione successiva a tale tempo non produce effetti perché irrimediabilmente tardiva: il reato, infatti, si è nel frattempo estinto per intervenuta prescrizione. A questa ipotesi deve essere assimilata quella in cui, pur essendo stata esercitata tempestivamente l’azione penale, la sentenza del primo giudice venga pronunciata oltre il tempo massimo stabilito per legge (in questo caso la pronuncia sarà di non doversi procedere per estinzione del reato per prescrizione).
Quanto sopra ha un senso perché l’intempestività a perseguire, come anche ad ottenere la condanna in primo grado dell’autore del reato in un dato tempo, giustifica in qualche modo l’attenuarsi e addirittura lo scomparire dell’interesse dello Stato alla punizione del colpevole.
Tutti gli ordinamenti giuridici europei prevedono tale tipo di prescrizione, che, va precisato però, si blocca con il semplice esercizio dell’azione penale.
Ma consideriamo invece l’altra ipotesi. L’autorità giudiziaria (il PM), conosciuta la notizia di reato, svolge le necessarie, per vero non sempre semplici ed anzi molto spesso complesse indagini; al loro esito trascina il presunto autore davanti al giudice il quale, compiuta l’istruttoria dibattimentale, emette una sentenza dichiarativa di colpevolezza, con irrogazione della congrua pena dell’arresto. Tra la commissione del fatto e la sentenza di primo grado è trascorso nel frattempo del tempo.
Esso si è consumato per varie insopprimibili ragioni: la costruzione abusiva è avvenuta a una certa data e la sua denuncia dall’autorità amministrativa a quella giudiziaria si è perfezionata molto dopo; il PM ha svolto le necessarie, laboriose indagini; il processo, con audizioni di numerosi testi e di periti, è stato celebrato; la sentenza dichiarativa di colpevolezza è stata pronunciata in tempo appena utile per evitare che il reato debba essere dichiarato estinto.
L’imputato condannato, però, esperisce legittimamente appello contro tale sentenza, e il relativo processo viene celebrato quando purtroppo il tempo massimo concesso dal codice, magari solo di qualche giorno, è oramai trascorso, con la conseguenza inevitabile che da parte del giudice di secondo grado debba essere pronunciata sentenza di estinzione del reato per prescrizione.
Il giudice di appello, cioè, non può pronunciarsi in merito alla colpevolezza dell’imputato, dovendo invece dichiarare estinto il reato (non è privo di rilievo la circostanza che se ne accerta, invece, l’innocenza, deve pronunciare sentenza di assoluzione anche se il reato è prescritto).
Lo stesso potrebbe avvenire in prosieguo, se questa sentenza di appello fosse tempestivamente pronunciata ma nella pendenza del ricorso in Cassazione, e prima della pronuncia da parte di essa, il tempo utile si fosse consumato. E allora occorre porsi delle domande.
È giusto in questo secondo caso che il mero inevitabile trascorrere di un ulteriore tempo dopo la sentenza del primo giudice faccia sì che lo Stato, che si è tempestivamente attivato fino ad ottenere la sentenza di condanna, debba ora rinunciare alla sua pretesa punitiva - nel caso in cui naturalmente venisse confermata anche in questo grado appello ed eventualmente in Cassazione la colpevolezza dell’imputato?
Il solo, semplice trascorrere del tempo può eliminare dalla realtà fenomenica il fatto dell’opera abusiva e da quella giuridica l’esistenza di una sentenza pronunciata al termine di un iter processuale che ha visto, tra l’altro, un ampio dispiegamento di forze materiali ed intellettuali ?
Si osservi la differenza tra le due ipotesi.
Nella prima, lo Stato è stato inizialmente inerte e, dunque, tale inerzia viene sanzionata con la prescrizione per effetto per così dire della scomparsa addirittura del ricordo sociale del reato.
Nel secondo caso, invece, lo Stato ha agito, ha azionato i suoi strumenti ed ha ottenuto davanti ad un giudice terzo ed imparziale la pronuncia di colpevolezza di Tizio. Sono comparabili le due fattispecie o non c’è per caso una sostanziale differenza? Per l’appunto l’esistenza di una tale differenza ha inteso sancire l’attuale legislatore, mediante la promulgazione di una legge che ha introdotto il blocco del decorso della prescrizione dopo la sentenza di primo grado.
Gli eventuali gradi di giudizio successivi alla sentenza di primo grado, secondo tale disposizione normativa, non potranno più concludersi con una sentenza di estinzione del reato, venendo invece sempre definiti con una sentenza che decide nel merito se l’imputato sia effettivamente colpevole o invece innocente del reato addebitatogli. Insomma, tempestiva la sentenza di primo grado, non ci saranno più sentenze successive di declaratoria di estinzione del reato per prescrizione.
A questo punto si confrontano punti di vista antagonisti. Quelli contrari a questo blocco della prescrizione lamentano la violazione dell’art 111 della Costituzione che stabilisce che la legge deve assicurare la ragionevole durata del processo. L’imputato, si sostiene, non può che esserlo per un tempo ragionevole, fissato dal legislatore, oltrepassato il quale è giusta la sanzione dell’estinzione del reato.
La prima, fondamentale e per certi versi insuperabile obiezione che si può muovere a tale proposizione, basata sull’ordinamento positivo, è che esistono reati imprescrittibili e quindi processi privi del tutto di un tempo in cui debbono necessariamente concludersi, senza che tale mancanza venga sanzionata con la prescrizione, il cui non ricorrere la Corte Costituzionale non ha mai fulminato.
Vi sono, poi, reati, che per la loro gravità si prescrivono in trent’anni e che quindi, ove conclusi in tale tempo lunghissimo, non violano affatto il principio della ragionevole durata!
La prescrizione così ha finito per colpire solo reati intermedi, spesso proprio quelli che nella percezione comune sono di maggiore allarme sociale, con un effetto simile a una vera e propria amnistia, ingiusta quanto meno perché incomprensibile alla persona offesa dal reato. Non può sottacersi, poi, come sul piano sistematico, secondo autorevole dottrina, goda di immeritata fortuna l’assunto che la prescrizione serva a garantire il bene costituzionale della ragionevole durata del processo. E ciò perché tra prescrizione del reato e ragionevole durata del processo non c’è in realtà alcun rapporto strumento-fine. Con l’art 111, la Costituzione lega infatti la ragionevole durata del processo al suo dovere essere giusto. La durata del processo è, cioè, ragionevole quando si estende per il tempo necessario alla ragionevole realizzazione delle garanzie del giusto processo (quello che si ottiene nel contraddittorio delle parti, in condizioni di parità, davanti ad un giudice terzo e imparziale). Ma ciò non significa che la ragionevole durata del processo coincida con l’indicazione prestabilita di un termine declinato in giorni, mesi ed anni, tanto più che un reato gravissimo potrebbe essere di facile accertamento e un reato meno grave estremamente complesso sul piano dell’assunzione delle prove.
Vi è, infine, una terza problematica, riflessione. Nel giudizio di primo grado la difesa dell’imputato svolge un completo e paritario contraddittorio con il PM nella formazione delle prove. Quelle dichiarative avvengono davanti al primo giudice, che vede le persone, le sente, ne percepisce l’incertezza testimoniale, le più o meno involontarie reticenze, ecc. Il giudizio di appello è invece, nei limiti di una cognizione limitata ai punti della decisione del primo giudice fatta oggetto di gravame, privo di una vera fase istruttoria improntata ai principi di oralità e contraddittorio (nel caso di sentenza di condanna in primo grado il giudice d’appello acquisisce le prove dichiarative solo se non è in grado di decidere allo stato degli atti o se lo ritiene assolutamente necessario).
Insomma, sia pure con l’approssimazione del caso, il giudice di appello, “nelle riposate forme del secondo grado… falsifica ed emenda gli eventuali errori” (del primo giudice).
E dunque, che continuino a celebrare i processi in appello (e ovviamente in Cassazione), ma per eliminare, come è giusto che sia, gli eventuali errori, per meglio avvicinarsi, sia pure con un meccanismo conoscitivo inevitabilmente di tipo procedurale, alla verità storica dei fatti; non invece per chiudere il tutto (ciò che è stato fatto e ciò che si deve ancora fare) con la saracinesca di un semplice “non liquet” (non è chiaro).
Significa che occorre essere condannati all’eternità del processo? Io credo di no, solo che si abbia la volontà politica di eliminare taluni ostacoli, di natura organizzativa, normativa, processuale, che finiscono col rallentarlo fino, con una frequenza davvero allarmante, a negare il suo naturale approdo finale. Che non può che esserci, giacché a chi prende il treno da Roma per arrivare a Milano non si può dire che il viaggio è terminato prima dell’arrivo, che anzi non ci sarà proprio arrivo. Ma per quale motivo?
Perché è scaduto il tempo, e ognuno se ne faccia una ragione!