La crisi sovranista
Voleva i “pieni poteri”, si è autoaffondato. Storia di una crisi di governo, l’occasione presa al volo dall’Europa, dall’America, dalla Chiesa. Il peso degli establishment e il nuovo corso dentro PD e M5S.
Questa volta dedichiamo il servizio d’apertura alla politica nazionale. Una scelta anomala, per un periodico di provincia, ma che abbiamo pensato utile e che ci è stata sollecitata anche da diversi lettori. Riteniamo infatti di poter fornire qualcosa di diverso dal concitato susseguirsi di notizie e dibattiti sul giorno per giorno; nell’ottica di dare una visione complessiva, che cerca di vedere, oltre le trame, i sotterfugi, le ambizioni dei singoli, le dinamiche di fondo di un momento importante della nostra storia.
È all’inizio di agosto che Matteo Salvini parte lancia in resta contro il governo. Il “suo” governo: di cui, più che vicepremier, è il dominus, e che gli ha offerto la ribalta su cui ha raddoppiato i voti (34% alle europee contro il 17% delle politiche del 2018) per poi salire ancora nei sondaggi (quasi il 37% il primo agosto). Non basta: alcuni giorni prima di lanciare la sfiducia, ha incamerato un sì, per quanto contrastato, al decreto sicurezza; e un sì alla Tav, piegando i grillini con l’appoggio del premier Conte e il sostegno dei democratici. Insomma, vittorie su tutti i fronti.
Perché decide di rompere il meccanismo che tanto gli sta fruttando?
Per rispondere dobbiamo capire dinamica e conseguenze del successo salviniano. Il punto centrale è la gestione dell’immigrazione, demonizzata e imposta come il problema centrale del 2000. Su questo terreno il centro sinistra si è mosso con incertezze e contraddizioni, stretto tra l’impulso ad accettare comunque i disperati della terra e i tentativi di governarne gli accessi – vedi le politiche di Minniti – magari al prezzo di creare orrendi lager, ma fuori dall’Italia. Deleterio è risultato il fragile alibi “l’immigrazione non si può fermare”. Nessun ebreo avrebbe mai pensato di emigrare in Germania negli anni ‘30; così Salvini ministro dell’Interno, sovrapponendo cattiveria verso gli immigrati ormai in Italia (tagli drastici all’assistenza, assurde richieste burocratiche per gli alloggi e persino per le mense negli asili) e crudeltà verso i migranti in mare, ha fatto vedere che, se si è decisi, se si è cattivi, l’immigrato lo fermi. Le cose poi sono più complesse: gli sbarchi, pur in numeri molto ridotti, sono continuati, ma questi sono dettagli: Matteo Salvini è apparso come l’uomo che fa quello che dice, che i problemi li affronta di petto e li risolve. Per di più, è un uomo del popolo: che mangia Nutella, balla in spiaggia, tifa per il calcio con gli ultras, non nega un selfie a nessuno. La popolarità sale alle stelle.
È un fenomeno mediatico, prima ancora che politico. E pertanto rischia di essere effimero.
Probabilmente è questa valutazione che spinge il numero due Giancarlo Giorgetti a spronare il Capitano a capitalizzare il consenso finché è al massimo. Anche perché, nella sua estate pazza, Salvini esagera. Non solo nella sovraesposizione, ma anche nelle troppe promesse. Ogni giorno, dopo ogni mojito, un nuovo annuncio: niente aumento dell’Iva (su cui peraltro tutti concordano), flat tax – oltre che iniqua, costosissima – tasse al 15% per i lavoratori, meno imposte sulla casa ecc. Come potrebbe in autunno il rissoso governo gialloverde onorare anche metà di queste promesse? Meglio evitare il redde rationem e fare una bella crisi, andare al voto, conquistare la maggioranza in Parlamento, e cucirsi addosso un nuovo governo tutto salviniano.
Di fronte a questo progetto il vicepremier prima tituba, poi si lancia, contro il suo governo Conte e contro gli alleati grillini: “Sono stanco dei loro no, dei loro insulti. Adesso basta” il 6 agosto. “Subito il voto” il 7. Dalla Lega mozione di sfiducia a Conte l’8. Fino al culmine del 9 agosto: “Chiedo agli italiani di darmi i pieni poteri”. È più che bellicoso, è tracotante: “Si faccia in fretta, i senatori alzino il culo”.
L’uomo è evidentemente affetto da bulimia di potere, un’ebbrezza (la hybris degli antichi Greci) aggravata dall’incongruo clima di festa sbracata - tra beach party e fan adoranti - in cui vive.
Salvini però, non è del tutto stupido. Per quanto ebbro di successo, ha presenti (non a caso prima lungamente esitava) le difficoltà che può trovare sulla strada intrapresa. Per arrivare al voto occorre il sì di Mattarella, giustamente restio a far votare gli italiani ogni 18 mesi. Ancor più restii sono i parlamentari, poco propensi a rinunciare alla carica. E poi magari i grillini, destinati al macello elettorale, per scongiurarlo fanno un qualche papocchio con il Pd... Per questo cerca una sponda proprio nel Pd, in Zingaretti. E la trova.
Nicola Zingaretti infatti è nella situazione di dover ridisegnare un partito senza avere il controllo dei gruppi parlamentari, saldamente in mano all’ego smisurato di Matteo Renzi; di più, deve progettare una strategia di lungo periodo più orientata verso i ceti popolari, che giocoforza presuppone la sconfessione dei provvedimenti, ammiccanti a destra, del governo renziano. Per fare questo ha bisogno di tempo (non ritiene quindi il partito pronto per una prova di governo, per di più accidentata come quella con i grillini) ed ha bisogno del voto per cambiare i parlamentari.
Zingaretti quindi (si saprà 15 giorni dopo) dà il via libera al voto subito. E Salvini parte alla carica: “sfiducia a Conte ed elezioni ad ottobre”.
I sondaggi lo danno per vincitore. Ma non ha tenuto conto di un ulteriore fattore, decisivo.
Il suicidio sovranista
“Sono stato messo fuori gioco dalla Chiesa, dai poteri forti. E ora c’è un premier su indicazione di Merkel, Macron, Von der Leyen” denuncia poi (28 agosto), lamentoso, Salvini. Ha ragione. Non a lamentarsi (chi è causa del suo mal...) ma a indicare le forze che lo hanno disarcionato: la (quasi) totalità della comunità internazionale.
Il fatto è che l’onnipotente Matteo, oltre a Ministro dell’Interno, ha fatto anche quello degli Esteri, e oltre a vicepremier ha fatto anche il premier. Ha preso posizioni nette quando non urticanti, è andato in missione all’estero dove ha incontrato questo e quello: di fatto ha svolto una sua personale politica estera. Che è stata un fallimento totale. Si è rivelato un dilettante incompetente e presuntuoso; anzi, peggio: pericoloso.
Con Merkel, Macron e tutti gli europeisti, sia quelli convinti che quelli tiepidi, si è continuamente e ripetutamente scontrato. È arrivato a irridere il presidente della Commissione Europea Juncker per una presunta ubriachezza (in realtà era reduce da un grave incidente stradale per cui era stato in coma, e per di più ammalato di cistifellea, poi asportata subito dopo la fine del mandato). Ma, oltre al disprezzo per i rapporti umani – che peraltro contano – è stato il dichiarato antieuropeismo a creargli attorno terra bruciata: ha continuamente ventilato, lui e i suoi economisti anti-euro Claudio Borghi e Alberto Bagnai, l’uscita dalla moneta unica, anzi ha tentato di lanciare una (illegale) moneta parallela; e anche sul suo tema principe, l’immigrazione, mai ha partecipato alle riunioni europee che dovevano ridefinirne la comune gestione, chiarendo così che ritiene l’Europa utile solo come bersaglio propagandistico.
Sul piano politico ha cercato di aggregare i movimenti sovranisti anti-Europa come quello di Marie Le Pen in Francia e il FPÖ del cancelliere Sebastian Kurz e del vice Strache al governo in Austria, e di aggregarsi (e magari in un secondo tempo guidare) il gruppo di Visegrad, i quattro stati dell’Europa centrale (Polonia, Ungheria, Cechia, Slovacchia) caratterizzati da dure politiche anti-immigrazione e – soprattutto Polonia e Ungheria – da una gestione illiberale della democrazia.
Il disegno si è dimostrato sgrammaticato e velleitario: in realtà il primo punto del no ai migranti di Visegrad, è un no al ricollocamento degli arrivi, esattamente il contrario di quanto ricerca l’Italia; e in economia i quattro sono per il rigore europeo - ancora il contrario di quanto predica Salvini – e in definitiva la loro permanenza nell’Unione è indubbiamente travagliata (Polonia e Ungheria si trovano sotto accusa per violazione dei valori fondamentali dell’UE), ma non è minimamente in discussione, in quanto sono grandi percettori, per svariati miliardi, dei sussidi europei. Non parliamo poi della diffidenza, se non di vera, storica, paura - come quella della Polonia - verso la Russia, che i quattro paesi dal ‘39 al ‘68 li ha invasi, ed ora torna alla politica muscolare con Putin, che di Salvini è lo sponsor internazionale.
Il disegno salviniano quindi semplicemente non sta in piedi, e difatti crolla miseramente. In Austria Strache viene travolto da uno scandalo (fondi russi!) e Kurz deve dimettersi, in Francia Le Pen perde le elezioni europee, e in generale i sovranisti, pur con qualche vittoria locale, non sfondano al Parlamento europeo: il gruppo Identità e Democrazia, (Lega, Le Pen e i tedeschi dell’Afd) dispone di “solo” 73 deputati su 751 ed è l’unico schieramento a non presiedere nemmeno una commissione parlamentare. Gli stessi polacchi, per non venire emarginati, si accodano al gruppo dei Conservatori e riformisti, e gli ungheresi di Orban addirittura al Partito popolare europeo, con cui votano la nuova cancelliera Ursula Von der Leyen. Come fanno i 5 Stelle.
Risultato: oltre il Brennero Salvini non conta niente. Ma all’Europa (intesa come la stragrande maggioranza del Parlamento) non basta: vuole (politicamente) eliminarlo. Vuole far fuori chi vorrebbe distruggerla; e al contempo vuole recuperare l’Italia. Di qui gli incoraggiamenti, sotto traccia dapprima, poi sempre più espliciti fino all’aperta sponsorizzazione, verso il ventilato nuovo governo che escluda la Lega.
L’America oltre Trump
C’è inoltre un altro fronte che, inaspettatamente, lavora contro Salvini. È l’America. Matteo, ingenuo facilone, pensava di avere intessuto un buon rapporto con Trump. Che si era sempre rifiutato di incontrarlo ufficialmente (non fa testo una phto opportunity colta al volo, come un fan con la rockstar) anche causa il dislivello di status diplomatico. Ma poco prima (giugno 2019) c’era stato un incontro a porte chiuse con il Segretario di Stato Mike Pompeo, e alla Casa Bianca con il vice-presidente Mike Pence (senza alcuna dichiarazione congiunta finale, solo i commenti – naturalmente entusiasti – dello stesso Salvini). E a favore si pensava giocassero le consonanze culturali e caratteriali tra i due (violenta irruenza nell’eloquio, disprezzo verso le élite, indifferenza verso la democrazia) e soprattutto una serie di fondamentali punti politici: contro l’immigrazione, contro l’Unione Europea, a favore di Putin, contro il fisco anche a costo di indebolire il welfare.
Ma l’America è letteralmente una grande nazione, non si esaurisce nel suo presidente. Oltre a Trump c’è la Cia, il Pentagono, il Congresso, il Segretario di Stato, una burocrazia capillare che ha i suoi margini di autonomia; e poi la società civile, che non è solo la vilipesa stampa liberal, è l’industria, Wall Street, la California... La si può amare o detestare, ma questa è l’America, che è stata profondamente anti comunista durante la guerra fredda, ed oggi è molto diffidente di fronte alla Russia muscolare di Putin. E Salvini è stato beccato (da chi? Dai servizi segreti? E quali? Gli stessi che hanno confezionato, con tanto di villa a Ibiza e bionda mozzafiato, il trappolone che ha smascherato l’ingordigia dei sovranisti austriaci?) con le mani nel sacco, con il suo plenipotenziario Savoini a trattare con Mosca una tangente in cambio di una politica italiana filo-russa.
Le sue linee di difesa sono state penose: dapprima ha tentato di disconoscere il suo uomo (sbugiardato da diverse foto che li ritraggono assieme a Mosca; e dallo stesso Conte, che ha avuto gioco facile nel far risalire al Ministero dell’Interno gli inviti del faccendiere leghista agli incontri ufficiali con Putin); poi si è abbarbicato all’assenza di effettivi passaggi di denaro (la trattativa non sarebbe stata del tutto conclusa). Il che gli può – forse - evitare guai penali (ma non è detto, il reato di corruzione prevede svariate fattispecie) ma lo precipita comunque, nelle valutazioni della politica internazionale, nel novero dei lacchè di Putin.
Con conseguenze a vari livelli. Il più vistoso si è visto a Wall Street, con la finanza americana a festeggiare la caduta del governo gialloverde e ad accompagnare la nascita del Conte 2 con una progressiva caduta dello spread. Anche Trump si deve accodare: e si iscrive con un tweet tra i supporter di Conte.
Con la Chiesa non si scherza
Salvini poi si è creato un ulteriore nemico, meno appariscente ma tra i più tenaci: la Chiesa. Lo scontro con papa Francesco è ripetuto, ed ha la sua logica: le visioni sull’immigrazione sono opposte, e il ministro cerca di arruolare sul suo fronte alcuni preti xenofobi e anti-islamici, utili per non perdere i contatti con l’elettorato cattolico. Poi fa di più, molto di più: si impanca a super cattolico, abbracciando e reinventando pratiche religiose popolari e desuete. Di qui i comizi con il rosario in mano, le invocazioni alla Vergine Maria, i baci ai santini, gli elenchi in piazza di sante e santi martiri di un supposto autentico cattolicesimo europeo. Atteggiamenti che sono stomachevoli per i laici, ma per il Vaticano un’autentica dichiarazione di guerra. Perché Salvini non contesta la Chiesa sul piano politico o ideale, ne invade il nucleo centrale, proponendosi come Gran Sacerdote di un novello rito alternativo. E la Chiesa, nei millenni, ha difeso con le unghie e i denti il proprio monopolio del cristianesimo. Ora non è più tempo di roghi o inquisizioni, ma il Vaticano, sottotraccia ma con determinazione, scende in campo.
Pidioti e grullini: l’imprevista convergenza
Salvini insomma, con la sua politica tanto tracotante quanto dilettantesca, ha seminato vento, ora raccoglie tempesta. Con un tale ventaglio di forze duramente contrarie – Europa, Usa, Vaticano, praticamente tutto il mondo – gli frana la terra sotto i piedi. Deve passare attraverso Mattarella, che ha contatti stretti e ramificati con le cancellerie estere (come pure con l’Oltre Tevere) e sa benissimo cosa si pensa, chi si vuole favorire, chi scoraggiare. E quindi sa che un nuovo governo, depurato della Lega, troverebbe condizioni esterne estremamente favorevoli.
Così, quando Salvini sfiducia il governo gialloverde, subito spunta la contro-ipotesi: il governo giallorosso. Se ne fa primo promotore (10 e 11 agosto) l’inossidabile Matteo Renzi, sempre senza remore nel dire tutto e il suo contrario: a dispetto della demonizzazione dei grillini sempre sostenuta a spada sguainata (e altrettanto radicalmente contraccambiata), ora, fiutata l’aria, vede la possibilità di inserirsi in un nuovo trend vincente, e al contempo mantenere il controllo dei parlamentari Pd, che con il voto e le liste gestite da Zingaretti verrebbero drasticamente cambiati.
Zingaretti invece ha ovviamente l’esigenza opposta: di qui il “No ad accordicchi con i 5 Stelle”. Anche perché teme che un malfermo governo democratici-grillini abbia l’effetto opposto a quello sperato, il rilancio della Lega e la débacle del suo Pd, che alle europee aveva iniziato una risalita.
Poi la situazione si evolve. Probabilmente premono le spinte che vengono dall’esterno, che abbiamo prima descritto. Comunque via via i vari padri più o meno nobili del Pd - Franceschini da subito, a ruota Prodi, Letta, Bersani, perfino D’Alema, poi anche Gentiloni, dalla Cgil Landini ecc - spingono per sostituire al governo grillo-leghista uno “di decantazione”, “costituzionale”, “di discontinuità”, insomma con i democratici dentro e Salvini all’opposizione.
Contemporaneamente questa opzione inizia ad essere discussa, soprattutto per iniziativa della corrente di sinistra di Roberto Fico, anche nei 5 Stelle, che hanno sempre demonizzato il Pd, addirittura “ladro di bambini”, ma dal voto verrebbero decimati, per di più attraverso un travaso verso quell’alleato leghista che li ha maltrattati per 14 mesi. Ed ecco allora che dal suo ritiro spirituale si fa vivo Beppe Grillo, che con uno sberleffo boccia “la coerenza dello scarafaggio”, rivendica il diritto\dovere di cambiare idea e alleati, ed apre la porta ai democratici.
Frattanto si sgonfia la minaccia Renzi: il quale prepara una scissione, ma si trova con i sondaggi che lo danno al 4%. Zingaretti ora può muoversi più tranquillo.
È a questo punto che Salvini si rende conto del vicolo cieco in cui si è cacciato. Il 16 agosto ingrana una vistosa retromarcia: congela la mozione di sfiducia al governo, e propone un nuovo accordo, con presidente ancora Conte oppure addirittura Di Maio. Ma ormai è troppo tardi. Sui blog dei 5 Stelle viene ora dileggiato, i parlamentari grillini (che intravvedono la possibilità di non perdere il posto) spingono per l’accordo con i dem, ed è su questa linea che Grillo, tornato alla politica, compatta i suoi.
Una fine patetica
Si arriva così al 20 agosto: Conte si presenta in Senato “per comunicazioni” su una crisi non ufficializzata (la Lega dopo avere sparato alzo zero ha ritirato la mozione di sfiducia) e attacca frontalmente il ministro dell’Interno, “irresponsabile e pericoloso”, “sleale”, “opportunista”, “privo di cultura istituzionale”, persegue “interessi politici e personali”, è dotato di “incoscienza religiosa” e “offende il sentimento dei credenti”. Infine la conclusione: “Matteo, non hai il coraggio di prenderti il peso della rottura. Me lo prendo io, il governo finisce qui”.
Salvini, che non si aspettava un attacco così frontale, è tramortito, mentre il presidente-fantoccio, ora rivale autorevole, lo accusa, non sa che fare, compulsivamente bacia rosario, crocifisso, santini neanche fosse una novizia bacchettata dalla madre superiora. Ormai patetico, è l’immagine di un uomo finito.
Tenterà continuamente di riallacciare con i 5 Stelle, con mosse scomposte e disperate. Non approderà a nulla, se non a complicare la partita, ormai giocata da altri.
I nuovi protagonisti
In effetti ormai la palla è passata a grillini e democratici, che dovrebbero fare un nuovo governo. Ci sono però diversi ostacoli, interni alle due formazioni.
Nei 5 Stelle si è decisamente appannata l’immagine di Di Maio, principale responsabile dell’accordo con la Lega e della sua disastrosa gestione. Al contempo brilla ora la stella di Giuseppe Conte, che con il robusto discorso al Senato ha rivalutato la propria immagine e dato finalmente motivi d’orgoglio alla base grillina, estenuata dai 14 mesi di sudditanza al debordante Salvini. Conte inoltre, forse solo con Tria, è l’unico esponente del governo che ha saputo accreditarsi all’estero: è colto, parla in maniera urbana, sa muoversi con accortezza, conosce perfino l’inglese. Dovrebbe essere solo il minimo sindacale, ma rispetto alla gentucola/gentaccia che ci ha rappresentato, dedita all’insulto e ai flirt eversivi, è un altro mondo. In Europa e in America ora si punta apertamente su di lui: spread e Borsa di Milano rispettivamente calano e salgono all’annuncio della fine dei gialloverdi, e con le loro oscillazioni accompagnano, in maniera financo imbarazzante, la nascita del Conte 2. Da Bruxelles si susseguono attestati di stima e irrituali promesse di minor rigore nel valutare il deficit italiano. Arriverà addirittura la benedizione di Trump.
Anche la Chiesa, pur sottotraccia, scende in campo. Giuseppe Conte da giovane aveva tentato di frequentare il Collegio universitario Villa Nazareth, istituzione caritatevole presieduta dal potente cardinale Achille Silvestrini, diplomatico della Santa Sede, che sostiene gli studi di giovani brillanti di ingegno ma poveri di famiglia. Lo scopo è sia evangelico che politico, legare alla Chiesa giovani talenti, futura classe dirigente. Conte, di famiglia non povera, non era stato ammesso al Collegio; era però rimasto in contatto con l’ambiente, che comunque poteva aprirgli diverse porte. Anche da premier gialloverde aveva cercato di approfondire i contatti, ma aveva incontrato risposte gelide. E si capisce: l’ultimo numero (di giugno) della rivista culturale della Fondazione si apre con il tema “Immigrazione”, la domanda “Da che parte stare?” e la parola chiave “Accoglienza”. Conte stava dalla parte sbagliata. Ora, con la filippica contro il ministro dell’Interno, in cui non a caso è inserita l’accusa di “incoscienza religiosa”, le prospettive sono cambiate.
Ma se nei 5 Stelle appare un dualismo Conte/Di Maio, nel Pd anche Zingaretti ha problemi. Anzitutto con Renzi, sempre incombente. Poi con l’immagine propria e del partito: aveva sponsorizzato il voto subito, ora si trova a chiedere il governo con i grillini. Ma deve essere “di discontinuità”, cioè assolutamente non presieduto da Conte.
Così, quando il 22 agosto, di fronte a Mattarella che ha aperto le consultazioni, i protagonisti politici si esprimono, lo fanno in termini palesemente confusi e contradditori. Salvini goffamente chiede un nuovo governo giallo verde con Di Maio premier e nessuno lo prende sul serio (o almeno così sembra); Di Maio per un accordo con il Pd pone come primario il taglio dei parlamentari, e Zingaretti il no allo stesso. Di fronte a questa melina Mattarella si arrabbia, e con volto teso, da preside che sta per sospendere un’intera scolaresca, comunica che concede ancora quattro giorni perché i partiti presentino una proposta seria, dopo di che porterà il paese al voto: ma con un governo ad hoc, per non avere le elezioni con Salvini al ministero degli Interni.
Il tempo dei giochini
Inizia il gioco dei 4 cantoni. Salvini, come un ragazzino respinto dalla morosa, continua a messaggiare Di Maio, e lo sventurato risponde. Zingaretti erige un muro: “Discontinuità vuol dire un premier diverso da Conte”, ed offre la premiership al grillino di sinistra Fico, che declina l’offerta. Conte, dal G7 nella basca Biarritz, incassa l’endorsement dei leader europei, allaccia rapporti con Trump, chiude alle (interessate) velleità di Di Maio di recuperare Salvini.
Stranamente i parlamentari grillini e democratici (prima grullini e pidioti secondo i rispettivi ultras), forse sospinti dal desiderio di non tornare a casa, lavorano proficuamente nelle riunioni programmatiche congiunte. Zingaretti, pressato dai suoi, rinuncia al no su Conte e rimodula quello al taglio dei parlamentari (“accompagnato però da una nuova legge elettorale proporzionale”, di cui peraltro non si sente il bisogno se non in ottica anti-Lega). Il gioco sembra fatto.
Un bel niente: Di Maio, che perderebbe la leadership grillina, si impunta, e ai dieci punti programmatici per i 5 Stelle “irrinunciabili”, ne aggiunge, con duro cipiglio, altri 10, e dichiara intoccabili i decreti sicurezza di Salvini. Zingaretti apprende la notizia mentre in macchina sta andando a un incontro proprio con Di Maio; fa dietrofront e dichiara: “Se le cose stanno così salta tutto”. Lo spread sale di botto, la Borsa scende e Salvini (che continua a proporre Di Maio premier) spera di tornare in partita.
Ma sono gli ultimi colpi di coda. Conte prima striglia Di Maio, poi sale al Quirinale da Mattarella che lo appoggia, interviene Grillo, che prende a calci il “capo politico”. Il quale vuole a tutti i costi almeno il posto da vice-premier. Ma il tempo dei giochini è ormai finito, la spunta il No di Zingaretti.
Il 3 settembre la piattaforma Rousseau certifica (79% di Sì) l’adesione della base grillina al nuovo governo, che ormai ha il via libera.
Il nuovo governo
Dal punto di vista degli assestamenti politici, i risultati più rilevanti sono nelle due principali (c’è poi anche Liberi e Uguali) forze al governo.
I 5 Stelle si trovano con la leadership di Di Maio logorata. L’uomo ritiene il Ministero assegnatogli per carità di patria – gli Esteri – insufficiente. Di sicuro, data l’ignoranza che lo contraddistingue – nella storia, nella geografia, nelle lingue tanto per cominciare - insufficiente sarebbe lui. È però opportunamente recintato, da Conte stesso, da Gentiloni Commissario europeo, dal Ministro per gli affari europei Amendola... Può fare danni dentro il Movimento, che ha già tentato di usare per le proprie personali rivendicazioni. Dove peraltro c’è disagio, incombe la scheggia impazzita Di Battista, non riesce a imporsi, per quanto rafforzato, il più razionale Fico. Finora il tutto è tenuto assieme da Grillo, sul quale peraltro è difficile scommettere. Per questo la tenuta dei 5 Stelle dipende più che mai dalla validità dell’azione di governo.
Nel Pd, dopo un mese di passione, si è paradossalmente rafforzata la posizione di Zingaretti. Il segretario ha indubbiamente infilato una serie di arretramenti, rispetto al no al governo con i grillini, al no a Conte, alla pregiudiziale di un forte vicesegretario democratico; ma d’altra parte in un frangente molto complicato è riuscito a tenere unito il partito (unica uscita, peraltro non traumatica, quella di Calenda), a liquidare l’arcinemico Salvini, a rintuzzare le bizzose pretese di Di Maio, a rimandare le elezioni che potevano essere pericolose. Tutti successi che hanno anche eclissato l’altrimenti incombente Matteo Renzi.
La partita tra le due forze ora si sposta sui contenuti dell’azione di governo. Anzi, già ci sono stati corposi anticipi, sia nelle discussioni sui punti programmatici, sia nelle zampillanti dichiarazioni di ministri o aspiranti tali.
Il punto è che Pd e 5 Stelle rappresentano due posizioni che possono essere complementari e sinergiche (come ora si auspica), oppure confliggenti (come avvenuto fino a 15 giorni or sono).
Su una tematica, fondamentale sono molto vicini: la necessità di ridurre le disuguaglianze sociali. Potrebbe – anzi, dovrebbe - essere un’ispirazione di fondo sufficiente per unire le due forze. Che poi invece, nel dispiegarsi della politica, hanno impostazioni culturali molto diverse: i 5 Stelle più innovatori ma faciloni e inesperti, i democratici più preparati ma troppo legati ai vari establishment. Questi due atteggiamenti si vedono in tanti punti specifici: infrastrutture, ambiente, giustizia, riforme.
Ora, è anche grazie alle pressioni e alle opportunità squadernate dagli establishment che è nato questo governo. Ma di troppa contiguità, cioè di incapacità a limitare privilegi e impropri interessi consolidati, il governo può rilegittimare i populisti e condannarsi. Questa deriva può essere contrastata proprio da uno scioglimento dialettico, in avanti, delle diversità tra PD e M5S, tra esperienza e innovazione.
Ad esempio, alle Grandi Opere non si deve dire sempre sì, come voleva Renzi e vorrebbe la contiguità all’establishment sempre affamato di appalti; ma nemmeno sempre No, come vorrebbe la parte dogmatica dell’ambientalismo: vanno fatte quelle utili, in cui i soldi impiegati non risultano buttati. Sembra banale, ma non sarà semplice.