Sfasciacarrozze
Il governo giallo-verde vuole finanziare le promesse elettorali attraverso uno strappo alle regole concordate in sede europea
Soldi pubblici, deficit, finanza: confessiamo di non avere molte certezze. In questi anni abbiamo assistito a troppi e rapidi capovolgimenti di idee, a fiaschi solenni di principi che sembravano granitici, a contraddizioni stridenti. Alla crisi del 2008 Obama rispondeva applicando le teorie keynesiane, dilatando cioè la spesa pubblica e accumulando deficit; al contrario l’Unione Europea a guida tedesca imponeva rigide barriere a deficit e spese. L’America uscì dalla crisi brillantemente (dal punto di vista economico), l’Europa ne uscì così così. Ma da quella duplice esperienza non sembra siano state tratte conclusioni e meno che meno insegnamenti, i sostenitori del rigore e quelli della spesa continuano a contendere, talora scambiandosi i ruoli. Peraltro spuntano come funghi pensatori estremisti, forse profeti poco ascoltati, forse avventurieri in cerca di pubblicità, che proclamano per gli stati la possibilità di spese infinite e l’irrilevanza dei debiti pubblici.
Tutto questo mentre ci sono incombenti due realtà. La prima è la massa finanziaria che gira per il mondo, superiore di varie volte il Pil mondiale, che quindi non ha aggancio alcuno con la ricchezza reale; e che segue sue logiche, spesso spietate. La seconda realtà è quella di paesi pur ricchi o molto ricchi in risorse naturali (vedi Argentina e Venezuela) che governati da demagoghi, prima trasformano i cittadini in assistiti, poi sprofondano in voragini di debiti irrecuperabili.
In questo quadro l’opinione pubblica è sconcertata. E i ceti impoveriti – o che temono un impoverimento – sono sfiduciati, sbandati, arrabbiati.
In Italia la risposta del governo grillo leghista è stata duplice. Da una parte avviare una robusta campagna di distrazione di massa additando gli ultimi della società e del mondo – i profughi – a causa di tutti i mali. Dall’altra forzare i vincoli europei. Con diverse motivazioni comprensibili e – in parte – giustificate. Rilanciare – keynesianamente - l’economia attraverso la spesa (ma dovrebbe essere più qualificata); alleviare le condizioni della parte più povera della società (ma il lodevole progetto non sembra avere le strumentazioni che evitino la trasformazione dei poveri in assistiti); assecondare le aspettative pensionistiche di parte dell’elettorato (anche se l’incremento della durata della vita non può non tradursi in un aumento della durata del lavoro); venire incontro all’insofferenza nei confronti della tassazione (ma la flat tax, per quanto ripetutamente annacquata, è un obbrobrio sociale, e il condono o “pace fiscale” un ulteriore attentato ai conti pubblici). Eppure il punto vero non è il merito di questi provvedimenti: bensì il fatto che siano finanziati attraverso uno strappo alle regole concordate in sede europea.
Qui vanno tenuti presenti due punti. Uno di fondo: l’Europa e l’euro sono una barca comune. Non può un membro dell’equipaggio effettuare una manovra rischiosa senza l’accordo degli altri; meno che mai può imbarcare acqua. Il secondo punto è contingente ma decisivo: con gli altri membri avevamo appena preso un impegno (deficit all’1,6%), non possiamo da un momento all’altro rimangiarcelo, pena la perdita di credibilità. E l’equipaggio europeo è tremendino: media, discute, concede, fa compromessi; ma fino a un certo punto, se si sente preso in giro (o meglio, se ritiene che sia compromessa la governance dell’impresa comune) diventa rigidissimo, spietato: chiedere a Tsipras e alla sua Grecia o alla May e alla sua Brexit.
Perchè questo è il limite più vistoso dei grillo-leghisti (e ahimè dell’Italia): non si sa che cosa pensino dell’Europa, quale sia il loro progetto, se ne hanno uno, verso l’Unione e verso l’euro. Le dichiarazioni del passato sono controverse, quelle del presente confuse, nella compagine annoverano in posti di rilievo degli autentici portabandiera dell’anti-europeismo come Savona, Borghi, Bagnai, che non perdono occasione per esternare il loro pensiero, diametralmente opposto a quello dei fragili rappresentanti ufficiali, il ministro Tria e il premier Conte. In questo contesto l’Italia non ha credibilità.
E, purtroppo, non solo in Europa. Non ne ha sui mercati. E se gli investitori (non parliamo neanche degli speculatori) incominciano a tirarne le conseguenze ritirando i capitali, sono guai immensi.
Dicevamo all’inizio: non abbiamo le idee chiarissime sulla politica finanziaria. Però alcuni percorsi sono ormai – tristemente – noti. Dovrebbero esserlo anche a chi è al governo.
A meno che questi (che sappiamo essere cinici abbastanza da aizzare la gente contro i disperati) non pensino che in questo momento fare gli sfasciacarrozze paghi.