“Vincent Van Gogh - l’odore assordante del bianco” e “Frame”
Due registi per due pittori
Nel giro di dieci giorni, la programmazione del Centro Servizi Culturali Santa Chiara ha proposto due spettacoli dedicati a due grandi artisti della pittura e al loro immaginario. Lavori diversissimi per concezione, forma e realizzazione, ma che facendo riferimento al medesimo campo è interessante porre in parallelo.
Parliamo di “Vincent Van Gogh. L’odore assordante del bianco” di Stefano Massini, prodotto da Khora Teatro e Teatro Stabile dell’Abruzzo, ospitato nella stagione di Grande Prosa del Teatro Sociale di Trento, e di “Frame” di Alessandro Serra, coprodotto da Koreja e Teatropersona, inserito nel cartellone “Altre Tendenze” dell’Auditorium Melotti di Rovereto.
Partiamo dal primo. Alessandro Maggi mette in scena l’opera prima di Stefano Massini, vincitrice nel 2005 del Premio Tondelli, avvalendosi di un nome (nazional)popolare e di sicuro richiamo come Alessandro Preziosi nel ruolo del protagonista.
Nel 1889 Van Gogh, in preda ad uno stato di salute mentale oscillante, è recluso in manicomio a Saint-Rémy-de-Provence. Privato, dopo aver tentato il suicidio ingerendo tubetti di colore, dei suoi attrezzi del mestiere, e indotto a un riposo forzato dall’arte. Costretto, lui che tanto amava i colori, a vivere in una prigione nella quale regna opprimente l’assenza di colore.
Prendendo spunto da questa tappa biografica, Massini compone un testo asciutto ma ricco di picchi poetici, che affronta – parole sue – “il labile confine tra verità e finzione, tra follia e sanità, tra realtà e sogno”. L’autore pone Van Gogh in un ambiente dove tutto è bianco: le pareti della stanza, la sua camicia di forza, i camici dei dottori, i fiori. Ogni cosa è di un bianco accecante e addirittura – come suggerisce la stupenda tripla sinestesia del titolo – assordante. Un luogo che acuisce la malattia, mettendo il protagonista di fronte ad un’autoanalisi psicologica dalla quale è difficile uscire vincitori.
Se Massini è drammaturgo assolutamente capace, Preziosi si cala con magnetica bravura nei panni del Van Gogh recluso, rendendone con profondità ed intensità i tormenti interiori. Gran parte della sostanza dello spettacolo grava su di lui, tra i pochi attori di cinema e televisione a reggere con padronanza anche il qui ed ora del teatro.
Tra gli attori che lo sostengono, passano la prova Francesco Biscione e Massimo Nicolini, rispettivamente il dottor Peyron e l’amato fratello Theo. Della scena completamente bianca (firmata, al pari dei costumi, da Marta Crisolini Malatesta), poi, colpisce il fondale che riproduce Campo di grano con volo di corvi, ma in bianco.
Lo spettacolo però non rende quanto potrebbe. Il problema, a conti fatti, è di regia: Alessandro Maggi si è messo – anche giustamente – al servizio di un buonissimo testo ed ha mirato a far emergere l’attore di punta, ma ha osato poco o nulla. E certe scelte, come la scena bianca fissa, pur volendo restituire visivamente la primaria intuizione drammaturgica, alla lunga stancano l’occhio e penalizzano la resa complessiva.
All’opposto, “Frame” è una creazione che possiede il suo punto di forza proprio nella regia. Una regia, come sempre nella ricerca di Alessandro Serra, da intendere a tutto tondo: ideazione, progetto, training degli attori di ispirazione grotowskiana, disegno di scene, costumi, luci.
In questo spettacolo, Serra si confronta con l’universo pittorico di Edward Hopper, cercando di cavar fuori da esso figure, ambienti, colori, luci, ombre, esperienze interiori, solitudini ritratti su tela, per poi ricrearli con il linguaggio della scena.
Per rendere concreta quest’idea, il regista realizza una scatola scenica grigia che consta di una cornice rettangolare sul fondale, copribile da una tela-finestra mobile. In questo ambiente, cinque attori (Francesco Cortese, Riccardo Lanzarone, Maria Rosaria Ponzetta, Emanuela Pisicchio, Giuseppe Semeraro) danno vita ai fermi immagine colti dal pittore americano, creando dei tableaux vivants degni di Bob Wilson. I performer riempiono lo spazio scenico in rituale silenzio. Non c’è parola, soltanto movimento; entra qui in gioco la consulenza coreografica di Chiara Michelini.
Come si può notare (e ai massimi livelli) in “Macbettu”, Serra persegue la perfezione formale, calando i suoi interpreti all’interno di un disegno complessivo estremamente pulito e preciso. Un procedimento che pure in “Frame”, quando la combinazione di luce o buio, silenzio o musica, movimento o immobilità è particolarmente indovinata, è capace di creare immagini altamente suggestive e poetiche.
Si ha però la sensazione che lo spettacolo non decolli mai del tutto: questo perché la ricerca di perfezione estetica pare spesso restare a livello intellettuale, non riuscendo a fare il decisivo salto nella sfera emozionale, quella davvero in grado di lasciare il segno.
In conclusione, più che concentrarsi su affinità e divergenze che dovrebbero risultare evidenti, mi pare giusto mettere in luce due eccellenze italiane come Stefano Massini ed Alessandro Serra. Il primo tra i pochissimi drammaturghi tout court di valore internazionale, il secondo tra i registi più meritevoli di attenzione e studio.