I perché della rivolta
La rivolta nel carcere di Spini: cause e soluzioni di un ormai continuo conflitto tra detenuti e istituzione.
Fin da quando era solo un progetto, il carcere di Spini di Gardolo si è fregiato del titolo di fiore all’occhiello della giustizia italiana: la Provincia lo fece costruire a proprie spese (circa 100 milioni di euro) e lo consegnò allo Stato con la promessa (messa per iscritto) di farlo diventare una struttura modello per la riabilitazione del detenuto: in sostanza il patto prevedeva la concessione di tutte le risorse necessarie per facilitare la riabilitazione attraverso il lavoro, l’istruzione e la limitazione del numero di detenuti.
La rivolta del 22 dicembre scorso è, al contrario, il segnale di un malessere interno al carcere che mal si concilia con l’immagine di carcere modello: scatenata dall’ennesimo suicidio, il settimo dal 2013, la rivolta è lo sfogo di una situazione che secondo i detenuti rivoltosi sarebbe insostenibile a causa di alcuni gravi problemi organizzativi.
Per comprendere meglio cosa stia accadendo ci siamo rivolti a tre avvocati del foro di Trento, che per ruolo e per vocazione hanno molto a cuore le questioni relative all’organizzazione penitenziaria: l’avvocato Andrea de Bertolini, presidente dell’Ordine degli Avvocati di Trento, l’avvocato Filippo Fedrizzi, presidente della Camera Penale e l’avvocato Fabio Valcanover, da sempre in prima linea sui temi della detenzione.
Un problema di comunicazione
Secondo quanto si legge dalla cronaca, uno dei motivi scatenanti la rivolta del dicembre 2018 è la lentezza con cui il Tribunale di Sorveglianza risponde alle richieste dei detenuti relative a permessi, lavoro, visite familiari, liberazione anticipata ed altro.
Secondo la legge Gozzini del 1986 esiste un patto tra detenuto e istituzione per cui la buona condotta viene premiata con uno sconto di pena: a fronte di 6 mesi di buona condotta o partecipazione a percorsi di lavoro e studio si concede il beneficio di uno sconto di pena di 45 giorni. Per effetto di questa norma, i detenuti inviano le cosiddette “domandine” per richiedere all’autorità giudiziaria i benefici cui ritengono di aver diritto. Ma le risposte sono molto lente e questa lentezza genera frustrazione e un senso di abbandono.
Secondo l’avv. Fedrizzi il problema effettivamente esiste, e trova origine nel sovraffollamento della struttura: “Si tratta di un grosso problema di organizzazione di personale e soprattutto di organico: i protocolli con cui il carcere è organizzato sono tarati sulla popolazione carceraria del 2011 (circa 240 detenuti), e non sono adeguati a sostenere i numeri odierni, 357 detenuti il giorno della rivolta. Quando il detenuto richiede un beneficio, l’area educativa deve produrre un documento che ne descriva la buona o cattiva condotta, in modo che il Tribunale di Sorveglianza possa decidere. L’istruttoria è di competenza dall’area educativa del carcere, che conosce i detenuti e l’ambiente. Ma gli educatori presenti sono tre, e non riescono a far fronte a tutte le richieste. E così le risposte alle richieste di beneficio tardano anche mesi ad arrivare”.
Si tenga presente che il carcere di Trento è una Casa Circondariale, ossia un carcere per detenuti con pena residua massima di cinque anni (con qualche eccezione), in cui la permanenza media è di otto mesi. Un ritardo di qualche mese nella risposta ha quindi un impatto consistente sul periodo di detenzione, generando frustrazione e depressione.
Poco lavoro complica la riabilitazione
Riabilitare il detenuto significa innanzitutto fargli vedere che si può vivere la vita in altro modo: ecco perché le attività lavorative o di studio sono necessarie per ridurre la probabilità di recidiva in maniera drastica.
La cosa fa storcere il naso ai fautori del “marcire in carcere”, che spesso dimenticano che questo Paese ha deciso di dotarsi di un sistema democratico che non deve mai essere feroce nei confronti dei detenuti, e che invece vuole promuovere il loro reinserimento in società.
Una possibilità è data dalla scuola: il carcere di Spini ospita alcuni corsi del liceo “Rosmini” di Trento, oltre ad alcuni progetti di formazione professionale, dando la possibilità ai detenuti di crescere culturalmente e mentalmente.
Quanto al lavoro, ci sono due alternative: i servizi interni al carcere (cucina, pulizie, ad esempio) che offrono (poco) denaro e restano un po’ fini a se stessi, e quelli organizzati da aziende o enti esterni che invece promuovono progetti anche molto interessanti dal punto di vista dell’apprendimento e delle prospettive per quando ci si riappropria della libertà. Il problema è che questi progetti non sono sufficienti a coprire le necessità: tutti gli avvocati interpellati sono concordi nel dire che ogni singolo detenuto lavora solo pochi giorni all’anno.
L’avvocato Fabio Valcanover, in particolare, afferma che “nel carcere di Trento si è ridotto il lavoro, perché è venuta meno una convenzione con alcune cooperative che offrivano lavoro ai detenuti. Tutto questo, inevitabilmente, rende il microcosmo del carcere sempre più deprimente”.
Altri problemi
Un altro grande problema è l’organizzazione dell’assistenza sanitaria. Ferma restando la buona volontà di tutti gli operatori, secondo l’avvocato Fedrizzi, autore della “Relazione sulle criticità attuali all’interno della Casa Circondariale di Trento” per conto della Camera Penale, la situazione sanitaria all’interno del carcere sarebbe piuttosto critica. Non esiste un presidio medico notturno, quanto meno per la gestione delle emergenze.
In più ci sono difficoltà nella gestione del supporto ai detenuti tossicodipendenti, che sono 86 su 350 e di fatto non sono seguiti. L’operatore del SER.T., uno solo, è presente per sei ore in settimana, così come lo psichiatra: un servizio che ha poco tempo a disposizione per garantire a tutti l’aiuto necessario.
E poi c’è la situazione della sezione femminile: il numero di donne è così piccolo (si parla di una ventina di detenute) che non si riesce a organizzare delle attività lavorative per loro, se non per servizi interni, tantomeno si è in grado di mettere a disposizione una offerta formativa che vada al di là dei livelli base.
Per ultimo, l’annoso problema della carenza di organico della Polizia Penitenziaria, ormai cronica, a causa delle scarse risorse messe a disposizione dallo Stato: il lavoro svolto dagli agenti è molto delicato, e c’è bisogno di più personale e di formazione adeguata, oltre al supporto psicologico per gestire al meglio le situazioni che si trovano ad affrontare.
Carcere e insicurezza sociale
Tutti questi problemi incidono inevitabilmente sulla capacità di ascolto che il carcere dovrebbe sempre garantire ai singoli detenuti.
Ci spiega l’avv. Andrea de Bertolini, presidente dell’Ordine degli Avvocati “Talvolta può succedere che il singolo detenuto faccia una richiesta all’istituzione e riceva una risposta dopo molto tempo. Quando ciò accade, si genera una situazione di oblio in cui le sofferenze umane si moltiplicano e il principio della rieducazione della pena si annulla in sé. Basterebbe una risposta, anche negativa, purché sia una risposta, che dimostri al detenuto che comunque l’Istituzione ascolta, ed è presente”.
Secondo de Bertolini, gli effetti di questa mancata capacità di ascolto si sono visti nel numero di suicidi in carcere a Trento: si tratta di sette casi dal 2013 ad oggi. “È un numero enormemente più alto rispetto al resto d’Italia, ed è la forma con cui più duramente si è manifestata questa incapacità di ascolto, che in modo tossico e virale genera solitudine e disperazione”.
C’è poi un grosso equivoco che si è diffuso nell’opinione pubblica. Così lo spiega de Bertolini: “Buona parte dell’opinione pubblica crede che la miglior risposta all’insicurezza sociale sia il carcere nella sua accezione più repressiva. Ora sicuramente chi sbaglia deve essere condannato ad una pena certa, ma la stessa pena deve essere lo strumento per il recupero sociale del detenuto, e non per la sua esclusione permanente dalla società. Per questo motivo vanno incentivate pene alternative che valorizzino opportunità di studio e lavoro”.
Solo lavorando e studiando, infatti, il detenuto è in condizione di crescere psicologicamente, confrontandosi con una realtà diversa da quella cui è abituato, o che l’ha portato a commettere illeciti: il carcere deve organizzare tutto il necessario perché ciò avvenga. Non è facile, ma deve farlo.
Dice de Bertolini: “L’opinione pubblica deve capire che non si tratta di buonismo, o di un approccio emozionale. I detenuti (donne e uomini) sono persone, sono parte della società, e lì ritorneranno al termine della pena. Oggi il carcere, per come è organizzato, in molti casi è un luogo criminogeno. E non possiamo aspettarci qualcosa di diverso: trascurare, minimizzandola, la funzione rieducativa, è premessa per recidiva e nuovi comportamenti illeciti. Tutto ciò è inaccettabile ed è quanto di più distante possa esserci innanzitutto rispetto al principio costituzionale della rieducazione della pena, ma anche, riducendo la detenzione ad una funzione puramente repressiva si contribuisce a creare insicurezza e insalubrità sociale”.
Soluzioni da adottare
Quali soluzioni adottare per provare a dare una risposta a questi problemi? Alcuni suggerimenti arrivano dall’avvocato Valcanover, penalista, radicale, da sempre in prima linea sulle questioni relative al carcere.
“La prima cosa da fare è chiarire doveri e diritti dei detenuti attraverso un regolamento. Il carcere di Trento non ha un regolamento carcerario, come invece è previsto dall’ordinamento penitenziario. Questo consentirebbe di avere delle certezze su ciò che si può e non si può fare durante la detenzione. Il regolamento dovrebbe essere consegnato ad ogni detenuto, nella sua lingua. La presenza di un regolamento potrebbe certamente ridurre la probabilità di rivolte come quella avvenuta in dicembre”.
La ragione è chiara: l’assenza di regole certe può facilmente generare arbitrii, e in ogni caso fraintendimenti, incomprensioni con le autorità e conseguentemente sfiducia.
Riguardo al problema sanitario, è evidente la necessità di un presidio sanitario costante: “Gli istituti penitenziari costituiscono un microcosmo isolato dal resto della società, che ha una percentuale di suicidi e di episodi di autolesionismo molto alta sia tra i detenuti che tra la polizia penitenziaria. Il livello di attenzione da dedicare alle carceri è massimo. Come è possibile che a Trento non ci sia presidio sanitario di notte?”.
Un altro aspetto è il lavoro. “A Trento si è ridotto, perché si è conclusa la convenzione con le cooperative. Nelle persone che non lavorano la probabilità di recidiva è alta, mentre per quelle che lavorano si stima una riduzione fino al 20%”. Una maggior comunicazione tra l’istituto di pena e il territorio potrebbe favorire contatti con le aziende e altre opportunità di lavoro per i detenuti.
E poi c’è una questione che potrebbe risolvere il conflitto istituzionale tra Stato, Provincia e Regione, e che permetterebbe una più razionale gestione delle risorse.
Al momento il carcere di Trento dipende dal Provveditorato Regionale di Veneto, Friuli Venezia Giulia e Trentino Alto-Adige, con sede a Padova. Ha competenza, fra le altre cose, sul personale e sull’organizzazione dei servizi nelle carceri del territorio di riferimento. Secondo Valcanover potrebbe essere una buona proposta istituirne uno solo per il Trentino Alto Adige, per gestire Trento e Bolzano.
Anche l’avvocato Fedrizzi si è espresso favorevolmente sul tema: “Se ci fosse un Provveditorato Regionale per Trento e Bolzano si potrebbe fare una programmazione migliore, sulla base di risorse e fabbisogni locali”.
Aggiungiamo noi che alla base di tutto sta il mancato rispetto degli impegni presi in origine da parte dello Stato con la Provincia donatrice della struttura: dotare il carcere di risorse commisurate al numero dei detenuti è la prima vera soluzione da intraprendere. Ma il problema vero, di fondo, forse è un altro: capire – come spiega la ricerca che riportiamo nel box sotto – che il carcere, ridotto a luogo di repressione e di mera detenzione, comporta costi economici e sociali, oltre che umani, molto più alti. Far “marcire” la gente è brutto e cattivo, e non conviene a nessuno.
Tossicodipendenti: la risposta sbagliata
Secondo i dati della Direzione Generale dell’Esecuzione Penale Esterna del Ministero della Giustizia, tra i detenuti trattati con pene alternative (semilibertà, affidamento a servizi sociali), solo il 19% è soggetto a recidiva ossia, scontata la pena, commette ulteriori reati. Questo contro il 70% di recidive per i detenuti, quelli cioè che la pena la scontano in carcere. Sono dati che, pur approcciati con qualche prudenza (i detenuti ammessi alle misure alternative sono in genere quelli che offrono migliori garanzie), sembrano dirci che il carcere è criminogeno, si fanno girare al suo interno sempre le stesse persone, e si fa troppo poco per implementare la soluzione al contempo più umana e più pratica, appunto la pena alternativa (affidamento in prova al servizio sociale, detenzione domiciliare, semilibertà).
Sul tema l’avv. Francesca Pesce, con il supporto dell’Ordine degli Avvocati di Trento, dell’Università, della Fondazione Tommasini Bisia, e della Provincia, ha svolto una ricerca, incentrata sui detenuti ospiti del carcere di Spini nel periodo 2008-2015, per verificare quale opzione sia più efficace per i detenuti tossicodipendenti: per ridurre da un lato la ricaduta nella tossicodipendenza, dall’altro per scongiurare possibili recidive penali.
Il risultato è stato che dei tossicodipendenti rimasti in carcere solo il 16%, una volta usciti, non torna ad assumere droghe; mentre questa percentuale sale al 37% per coloro che hanno ricevuto trattamento di recupero e accesso a pene alternative. Ancor più netta la differenza per quanto riguarda la recidiva criminale: l’81% di coloro che hanno scontato pene alternative non delinquono più, contro il solo 30% di coloro che sono rimasti detenuti.
Francesca Pesce inoltre approfondisce vari aspetti del problema. Le conclusioni ci sembrano lampanti: le misure alternative sommate a misure specifiche per il trattamento dei tossicodipendenti portano ad ottimi risultati. Non solo: vari studi indicano che le misure alternative costano molto meno (circa la metà) della detenzione.
Allora, continuiamo a lasciarli marcire in carcere?