Dal carcere: fare i conti col passato
Un convegno a Padova per dare un senso alla punizione
“Non siamo qui per parlare di buoni sentimenti, ma di meschinità, di sofferenza”. È con queste parole che venerdì 23 maggio si è dato inizio all’annuale giornata di studi sul carcere organizzata, all’interno della Casa di Reclusione di Padova Due Palazzi, dall’associazione “Granello di Senape”. Che, all´interno del carcere, gestisce un centro di documentazione e soprattutto la rivista “Ristretti Orizzonti” (www.ristretti.it). Parole pronunciate da Ornella Favero, direttrice responsabile che da oltre un decennio si dedica in forma volontaria a coordinare una redazione formata quasi interamente da detenuti ed ex detenuti (i ristretti, appunto). Realizzando una rivista bimensile che porta avanti il duplice obiettivo di produrre informazione di qualità sul carcere dal dentro e di offrire ai reclusi l´opportunità di utilizzare l´interminabile tempo a disposizione per riflettere sulla loro condizione anziché crogiolarsi futilmente.
“La Verità e la Riconciliazione” era il tema del convegno, che in effetti è stato affrontato in forma tutt’altro che buonista. “Come fare i conti con il passato?” era la domanda intorno alla quale si sono sviluppati tutti gli interventi. Si sono presentate testimonianze di realtà e percorsi nei quali i conti con il passato, spesso terribile, non sono stati fatti sulla base di un sentimento di rivalsa e vendetta, ma con l’intenzione di scioglierne, con sofferenza, i nodi.
Percorsi collettivi e nazionali, come il doloroso processo di riconciliazione del Sudafrica post-apartheid, raccontato da Marcello Flores, che lo ha studiato. Un percorso per cui un’amnistia è stata garantita ai perpetuatori di crimini e violenze di qualsiasi parte in gioco (compreso l’ANC, partito liberatore di Nelson Mandela) solo ed esclusivamente se questi avessero raccontato nel dettaglio i crimini commessi alla Commissione di Riconciliazione, presieduta dall’arcivescovo e premio Nobel per la Pace Desmond Tutu. Racconti che sono avvenuti spesso davanti ai familiari delle vittime o in diretta TV con il Paese intero, nell’intento di produrre una catarsi che potesse essere utile sia alle vittime che ai carnefici. Generando una giustizia collettiva basata proprio sull’aver guardato in faccia il passato nella sua violenza, più che sull’amara soddisfazione di vedere puniti i “colpevoli”.
Percorsi incompiuti, come quelli dei tanti membri della redazione della rivista, che hanno raccontato le loro storie di precedenti in carceri che “non insegnano nulla se non a sopravvivere al carcere stesso”, dove l’unica attività quotidiana era “passare il tempo a perderlo”. Carceri che ti lasciano da solo a rimuginare ed incattivirti, in un processo, tristemente comune in Italia, per il quale “si diventa vittime anche quando vittime non si è”. Interventi che hanno spiegato come, al contrario, non vi sia punizione più ingestibile del confronto e, soprattutto, del perdono da parte della propria vittima o dei suoi familiari, un perdono “che non lascia scuse”, e che costringe a guardare in faccia le proprie colpe, a cambiare pagando il prezzo della sofferenza.
Infine, strazianti percorsi di riconciliazione individuali, come quello presentato per ultimo, decisamente il più difficile tanto per il pubblico che per le relatrici: la storia, raccontata tra le lacrime, di due donne che si sono conosciute nel peggiore dei modi. Quando il figlio ventenne di una, ubriaco, ha ucciso a sprangate il marito dell’altra, carabiniere che lo aveva fermato per un controllo mentre tornava da una discoteca.
Due donne che sono state in grado di compiere quello che loro stesse definiscono “un miracolo”: colmare la distanza che un omicidio aveva interposto tra di loro, diventare amiche, permettere che la moglie della vittima visitasse l’omicida nella comunità dove sta attendendo la condanna definitiva ed affrontasse con lui la sofferenza della perdita del marito. Per poi fondare un’associazione che promuove la riconciliazione tra autori e vittime di reati.
Un convegno che ha dovuto rispettare i tempi serrati del carcere, senza rispetto delle esigenze di relax del pubblico. Una giornata che è stata capace di trasmettere quella combinazione di razionalità ed emotività che entra in gioco quando si affrontano davvero i lati più oscuri del comportamento umano.
Di certo, in una società incattivita, in preda al desiderio di rivalsa, con una politica che parla di “processi” sommari alla vecchia classe dirigente, è stata l’indicazione di una strada diversa. Che forse un giorno si sceglierà di percorrere.