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QT n. 10, ottobre 2018 Servizi

La nuova agricoltura trentina

I pro e i contro del biologico, le nuove strategie, i nuovi pesticidi

Nel numero di giugno 2017 di QT ci eravamo chiesti: “Chi frena la diffusione del sistema di coltivazione biologico in Trentino?” Su tale questione la società Omnicomprgroup di Milano, incaricata della propaganda dei moderni pesticidi, si è fatta viva con la nostra redazione di chiedendo di poter portare il suo punto di vista. Che noi illustriamo nel box a lato.

Il tema va inquadrato storicamente. Lo sviluppo della coltivazione delle mele e dell’uva ha in effetti raggiunto nel Trentino i risultati di eccellenza quantitativa, estetica e qualitativa, in ragione dell’avvenuta introduzione dell’ utilizzo dei pesticidi, sotto la guida della fondazione Edmund Mach. Tali risultati furono accolti con entusiasmo dagli agricoltori, che prima dell’introduzione dei pesticidi, erano ossessionati dai mancati raccolti causati dalle avversità più diverse e di conseguenza, nei casi estremi, costretti ad abbandonare le loro terre ed emigrare.

D’altra parte il Trentino non è stato un esempio unico nel mondo: molte delle grandi migrazioni sono state legate a malattie non curabili delle piante, vedi la migrazione verso gli Stati Uniti delle popolazioni irlandesi, provocata dalla malattia delle patate. È talmente importante questo aspetto storico che ancor’oggi il consorzio Melinda, famoso per qualità delle sue Golden, nonostante abbia posto sul tavolo, per la conversione al biologico, ben 10.000 euro-anno per ettaro, per tre anni, fatica ad individuare agricoltori che si impegnino ad accordarsi, su aree omogenee, a rinnovare le proprietà melicole in tale direzione, quasi fosse rimasto scritto nel loro dna il dramma dell’emigrazione di parenti ed amici impoveriti dall’incapacità di far fronte alle fitopatie.

La politica, che per tanti anni ha rappresentato semplicisticamente la cultura maggioritaria tra gli agricoltori che per necessità avevano scelto i pesticidi, ben poco ha fatto finora per spingere la trasformazione verso il bio, giudicato in ultima analisi poco più che un incidente di percorso. Contribuendo così a trascurare, anzi, ad emarginare, gli agricoltori più attenti che studiavano l’effetto dei pesticidi sia su se stessi che sull’ambiente. Così questi hanno dovuto organizzarsi in piccoli gruppi, comunicando tra loro esperienze ed iniziative, senza alcun vero supporto della Provincia né tanto meno dell’Istituto Mach che, subordinato alla politica, ha continuato a premiare l’agricoltura tradizionale e solo ora ha cominciato timidamente ad affrontare il tema.

Che oggi è un tema di attualità. Sia perché il consumatore non si fida appieno di prodotti trattati con pesticidi; sia perché sempre più protestano gli abitanti di aree contigue ai campi dove agricoltori tradizionali irrorano con pesticidi le campagne, non sempre rispettando gli orari e le distanze imposti dalla norma ; sia perché cresce il disagio dell’agricoltore che inizia a diffidare per la propria salute dei prodotti che utilizza; per non parlare dei segnali che giungono da un prezioso indicatore ecologico come le api, a loro volta indispensabili all’interno del ciclo vitale (e che alcuni vorrebbero sostituire addirittura con i droni impollinatori).

Il Trentino, caratterizzato da un territorio molto frazionato e a ridottissima superficie agricola, non ha mai cercato, in passato, di rendere compatibile l’agricoltura tradizionale con l’espansione urbanistica delle proprie città e paesi. Con buona pace di chi sapeva e non ha parlato o non è intervenuto, parte degli agricoltori si sono arricchiti con la vendita di appezzamenti destinati all’espansione delle abitazioni ed ora si trovano a fare i conti con una popolazione che si è costruita le case in contiguità con le campagne, sempre più consapevole dei rischi che corre, e sempre meno disposta ad accettare l’inerzia della politica, che percepisce arroccata a difesa del tradizionale. Senza parlare di come si è aggravato il problema con la eliminazione delle cinture boscate che una volta proteggevano i paesi, patrimonio fondamentale per il contenimento dell’inquinamento atmosferico, sacrificate ancor oggi all’estensione dei frutteti.

Anche alla luce di dati impressionanti, come il quantitativo medio per ettaro di superficie agraria complessiva - comprendente frutteti e pascoli - di pesticidi utilizzati nel Trentino, 10,4kg contro la media nazionale di 4,9, ed il quantitativo utilizzato per ettaro coltivato a mele ed uva (30-45 kg), sono nati gruppi spontanei di difesa della popolazione dall’uso dei pesticidi, e sono stati applicati regolamenti presso i Comuni più avveduti e, da ultimo, anche presso la Provincia di Trento, che vietano l’uso di pesticidi entro ridottissime fasce di rispetto da scuole, giardini, abitazioni, ecc. In ultima analisi il tema rischia di scoppiare nelle mani di una politica, che non ha fatto nulla sinora per essere informata, e comunque disattenta, con il conseguente pericolo del “fai da te” prevalente nelle persone che, deluse da tale comportamento, minacciano di arrivare a un referendum che vieti tout court l’uso dei pesticidi su tutto il territorio provinciale, quando ancora non sono perfettamente valutabili le conseguenze economiche.

Le nuove esperienze

Irrorazione col sistema a tunnel

Fortunatamente cominciano a nascere anche spontanee esperienze tecniche che vengono incontro alle preoccupazioni della popolazione, e si tenta di sviluppare attrezzature in grado di ridurre al massimo la diffusione dei pesticidi irrorati.

Alla Omnicomprgroup, che ha l’interesse primario di sollecitare l’uso sicuro dei pesticidi prodotti dai propri associati, non può sfuggire il pericolo che essi corrono se ancora tardano nel farsi promotori e sostenitori della diffusione delle migliori tecniche, non solo di rapido degrado dei pesticidi, ma anche di corretto minimo dosaggio e migliore tecnica di irrorazione. Nel box a fianco si può vedere un esempio di come la tecnica si stia orientando verso l’irrorazione dei pesticidi con il sistema a tunnel, grazie al quale viene ridotta almeno del 90% la “deriva”, ossia la propagazione dei pesticidi verso l’ambiente non trattato.

Il vigneto e l’esportazione

La fondazione Mach, nel frattempo, ha messo sotto controllo dei vigneti bio e tradizionali confrontando il costo annuo di tenuta e la qualità del prodotto, per poter rispondere ai giovani agricoltori, ancora riluttanti, quando si presentano con progetti di rinnovo dei coltivi, e ad oggi è già in grado di assicurare che il bio nel vigneto risulta competitivo, in particolare se si fa attenzione ai residui rilevati nei vini, aspetto che deve maggiormente curare il mercato dell’esportazione. A questo proposito ne sanno qualcosa le cantine che in passato si videro rimandare indietro il vino esportato negli USA a seguito dell’individuazione dei residui dei filtri di fibre di amianto nei vini.

La preoccupazione è legata al progresso dei sistemi di analisi che, anno dopo anno, divengono più precisi e quindi in grado di riservare sorprese ai vini soggetti ad anni di invecchiamento, i migliori. In sostanza, il vino proveniente da agricoltura tradizionale ed oggi giudicato salubre, non è detto che lo sia in un prossimo futuro, quando nuovi sistemi di analisi saranno in grado di individuare residui che oggi non vengono considerati. Non è un caso che una grande azienda come le Cantine Ferrari, abbia deciso di passare in toto al biologico. Si dirà che il Ferrari costa (almeno) dieci euro. Ma le cantine che producono vini venduti per molto meno? Insomma, l’agricoltore medio, che convenienza può avere a passare al biologico?

Su questo si è incentrata una ricerca effettuata recentemente dalla fondazione Mach e queste sono le conclusioni del dott. Mescalchin, curatore della ricerca.

L’esperienza di questa anni ci fa dire che la viticoltura biologica.

  • é possibile in (quasi) tutti gli ambienti viticoli che rispettino la vocazionalità delle zone e le caratteristiche dei vitigni;
  • la sua produttività è simile o leggermente inferiore al convenzionale;
  • la qualità a parità di ambiente è tendenzialmente migliore del convenzionale;
  • richiede maggiore impegno di lavoro (soprattutto gestione e trattamenti);
  • in annate o zone difficili per prevenire possibili danni sono richiesti tempestività nelle operazioni colturali e lavoro supplementare;
  • l’effetto sulla riduzione dei residui nei vini è evidente;

Se poi alla semplice scelta di utilizzare nel vigneto trattamenti bio rispetto a trattamenti tradizionali, già vincente a livello di qualità del prodotto, si unisce la scelta del cultivar (varietà ottenuta con il miglioramento genetico) più resistente al freddo ed un impianto con una geometria più adeguata ai trattamenti effettuati con tunnel, che oltre ad impedire la diffusione dei trattamenti bio all’esterno del vigneto, comunque da limitare, riducono il quantitativo di rame applicato preparandosi a far fronte ad un futuro intervento pubblico di contenimento nell’uso del rame, si può ben capire che il bio nel vigneto deve fare ancora molta strada, ma è già competitivo.

Quanto rame?

Una nota particolare va riservata all’uso del rame nel vigneto bio, utilizzo tradizionale, ritenuto biologico, e ora sempre più messo in discussione, anzi da alcuni considerato il tallone d’Achille del biologico. Sul tema ha effettuato uno studio di 5 anni la fondazione Mach. Che ha concluso fissando tra 200 e 400g il dosaggio minimo di rame, per singolo trattamento, per ettaro, per ottenere un efficace trattamento contro la peronospora nel vigneto bio.

Tale dosaggio consente di rimanere al di sotto dei 6 kg di rame utilizzabile per ettaro all’anno, limite dettato dalla legge italiana. Però la UE sta studiando di ridurre ulteriormente tale limite a 4 kg/ha/anno. Se si pensa che, in particolari stagioni, si debbono fare anche più di 20 trattamenti al vigneto per difenderlo dalla peronospora, ciò costringerà a ridurre il quantitativo di rame nei singoli trattamenti sia operando nel contenimento della deriva che nella scelta di cultivar più resistenti alla peronospora.

La “pergola trentina”

Finiti i problemi? Neanche per sogno. In discussione è infatti il tipo di impianto nella coltivazione del vigneto tradizionale con uso dei pesticidi, il cosiddetto impianto a pergola trentina. Per questa risulta impossibile l’utilizzo di irroratori ad alto controllo di deriva dei pesticidi, e nel passato è stata sottoposta a grande attenzione, per la pericolosità dei trattamenti della stessa, nei confronti dell’ambiente ed in particolare dell’agricoltore addetto all’irrorazione - che nel lavoro risultava racchiuso in un tunnel di aerosol di pesticidi davvero micidiale, nonostante le protezioni - arrivando a considerarla superata, in particolare rispetto alla coltivazione bio con impianto a spalliera.

La pergola trentina è stata quindi in parte abbandonata, nel passato, a favore della spalliera, ma recentemente è stata ripresa perché unico tipo di impianto riconosciuto in grado di opporre una efficace difesa al freddo del vigneto, ed oggi una gran parte dei vigneti è stata riconfigurata a pergola trentina, con relativa alta difficoltà nel contenimento nell’uso dei pesticidi.

Il diserbo

C’è poi il tema del diserbo, operazione volta a ridurre la concorrenza dell’erba tra i filari a favore delle piante coltivate, uno degli aspetti che la chimica ha risolto brillantemente con pesticidi a base di glifosato, che recenti normative hanno tentato di eliminare per la loro pericolosità, senza arrivare ad un vero e proprio bando.

Il biologico senz’altro, ma anche l’agricoltura tradizionale, si trova ad affrontare il problema con il diserbo meccanico, ossia senza uso della chimica.

Con l’introduzione massiccia di attrezzi per il diserbo meccanico, si raggiunge un’efficacia paragonabile a quella degli erbicidi a base di glifosato. Ma a costi decisamente maggiori. Per questo ci sono resistenze all’eliminazione del glifosato.

Il “frutteto pedonabile”

Frutteto pedonabile multi-fusto verticale con rete di protezione

Tra le nuove esperienze, vale la pena illustrarne una decisamente interessante: il cosiddetto “frutteto pedonabile”. Si tratta di una coltivazione del tipo a multi-fusti verticale, che impiega quindi un minor numero di piante per ettaro e permette pertanto di ridurre i costi di impianto del 10-20% (5.000-7.500 euro/ha).

La fase di impostazione è delicata: è necessaria una potatura e legatura che costringano la vegetazione della pianta ad assecondare la crescita di 6-8 fusti verticali, dura 2 anni e necessita di circa 250 ore/ha di manodopera in più rispetto al tradizionale mono-fusto verticale. Nella fase di maturità, rispetto agli impianti mono-fusto, l’allevamento multi-fusto verticale consente una più facile gestione delle pratiche culturali perché la frutta è totalmente esposta e può essere diradata e raccolta con un risparmio di circa 150 ore/ha/anno rispetto agli impianti tradizionali.

La mancanza di carri raccolta e scale comporta una ulteriore riduzione dei costi di produzione e maggiore sicurezza. La produzione di frutta è paragonabile alle tradizionali 60-70 tonnellate/ha, ma di qualità più uniforme.

La riduzione dell’impiego di agrofarmaci è notevole e dipende da più fattori. Nei frutteti pedonabili, infatti, la parete fruttifera, sottile e non più alta di 2,5 metri, può essere gestita con normali atomizzatori chiudendo 4 ugelli su 16, risparmiando il 20% di prodotti antiparassitari (circa 600 euro/ha/anno). Si può scegliere di trattare a file alterne impiegando atomizzatori con ventola in funzione, oppure di trattare tutte le file, ma senza ventola e in questo caso, particolarmente indicato per le aree peri-urbane, di ridurre fortemente la deriva verso l’esterno. Inoltre in questi frutteti si possono sostituire gli interventi chimici di diradamento dei frutti, di lotta alle malerbe e di controllo della vegetazione con semplici interventi meccanici. Infine si possono utilizzare macchine per la distribuzione dei fitofarmaci a tunnel che riducono di oltre il 95% la deriva verso l’esterno e possono riciclare il prodotto che recuperano, o in alternativa - ma sono ancora in fase sperimentale - impianti fissi per la distribuzione degli antiparassitari.

Frutteto con rete di protezione dagli insetti

Un’altra applicazione che riduce notevolmente l’impiego di fungicidi e insetticidi è l’applicazione delle reti anti-pioggia sopra la pianta e di reti anti carpocapsa, ai lati, che difendono da grandine, da diversi insetti tra cui carpocapsa e cimice e dalla ticchiolatura, malattia fungina che richiede 15-20 trattamenti all’anno. In quattro anni di prove, nelle piante protette dalla rete anti-pioggia, senza interventi fungicidi specifici per la ticchiolatura, si è passati da una produzione senza le reti totalmente compromessa dalla ticchiolatura ad una presenza di ticchiolatura inferiore al 3% sotto rete.

Questo modello di frutteto pedonabile sotto rete monofilare, anche se comporta un costo di impianto maggiorato del 20% rispetto al tradizionale, è decisamente interessante per le zone più sensibili, vicino alle case, ai corsi d’acqua e alle attività extra-agricole in genere, perché permette una riduzione dei fitofarmaci del 70-80% rispetto al tradizionale nonché un controllo quasi totale della deriva.

Con tale impianto, unito al tipo di cultivar più resistente alle malattie, al tipo di protezione a rete efficace a bloccare gli insetti, si stanno preparando le future coltivazioni delle mele nel Trentino finalmente in grado di ridurre drasticamente l’uso dei pesticidi.

Campione della produzione di un meleto, pedonabile non trattato con pesticidi, senza rete di protezione, con ticchiolatura che compromette la produzione
Campione della produzione di un meleto, pedonabile non trattato con pesticidi, con rete di protezione, con ticchiolatura con scarti di solo il 3%

Cosa può fare la Provincia

La Provincia è arrivata buona ultima nella sfida del bio, con un solo ufficio con 3/4 addetti a gestire il complesso tema. Essa stessa, mediante una urbanistica di rapina che ha accostato quando non mescolato aree urbanizzate e aree rurali, ha legittimato nel tempo situazioni molto difficili da gestire in sicurezza.

Oggi dovrebbe intervenire anzitutto in questi territori, soprattutto se risultano maggiormente destinati ad una agricoltura integrata con il turismo, aiutando i progetti di espansione dell’agricoltura bio, promuovendo premi annuali, confronti e gare, assistita dall’università, al fine di dimostrare le migliori tecniche di irrorazione, i migliori cultivar, le migliori geometrie d’impianto, l’applicazione dell’intelligenza artificiale ai segnali provenienti dalle coltivazioni, la diffusione dei sistemi di protezione a rete, per la grandine anzitutto, ma anche per gli insetti dannosi, la rivalutazione patrimoniale degli immobili qualora vengano protetti dall’uso dei pesticidi, la diffusione dei sistemi di lavorazione per conto terzi a prezzo calmierato, ecc. Un vero programma politico per la prossima legislatura.

In conclusione, alla domanda su chi frena la diffusione delle coltivazioni bio potremo dare una risposta composita. Innanzitutto collegata alla storia (si pensi all’emigrazione arrestata dall’introduzione dei pesticidi), al grande frazionamento delle proprietà ed all’eccessiva individualità nella conduzione dei propri vigneti-frutteti da parte dei piccoli agricoltori, che ha impedito l’aggregazione per aree omogenee.

Poi alcuni reali problemi tecnici solo ora in via di risoluzione, cui abbiamo accennato, come le problematiche legate ai trattamenti col rame. Ma il punto vero è stato il ritardo di un sistema politico provinciale incapace di favorire l’introduzione del bio o almeno dei sistemi di impianto dei vigneti e frutteti e di attrezzature in grado di ridurre drasticamente la deriva dei pesticidi, utilizzando le pur grandi risorse a sua disposizione sia in termini culturali (Fondazione Mach e Università) che sociali: magazzini della frutta e cantine sociali.

Forse si sta girando pagina. Dopo che i vantaggi maggiori sono stati tratti, finora, dai produttori dei pesticidi a scapito della qualità dell’ambiente.

Fitofarmaci: dati e problemi secondo i produttori

Quali i quantitativi, per ettaro di meleto e di vigneto, dei singoli pesticidi utilizzati in un anno di media problematicità?

Circa 30-35 kg/ha/anno su melo e 20-25 kg/ha/anno su vite. Una stima più dettagliata per singolo prodotto è molto difficile da fare perché esistono molte strategie diverse che prevedono impiego di prodotti differenti in proporzioni differenti.

Con quali costi?

Costo medio di 2000-2500 euro/ha/anno su melo e 800-1000 su vite.

Qual è il degrado delle molecole dei singoli pesticidi, con focus particolare sul rischio dei singoli elementi, sul processo e sul risultato finale?

L’impiego di prodotti autorizzati dal Ministero della Salute, seguendo le indicazioni dell’etichetta, è da considerarsi sempre sicuro e senza conseguenze negative.

Quali passi si intende compiere per ridurre il rischio ambientale legato all’impiego di pesticidi?

A livello EU è in atto un processo di revisione dei singoli principi attivi, iniziato a metà degli anni ‘90 e tuttora in corso, volto ad uniformare i criteri di valutazione e a revocare l’autorizzazione di quei principi attivi che si dovessero rivelare non abbastanza sicuri. Attraverso le singole aziende e un costante dialogo tra l’industria, gli operatori del settore e le istituzioni si sono migliorate moltissimo le formulazioni dei vari formulati commerciali (es: sostituzione delle tallowammine nel glifosate), si sono razionalizzati i programmi di tutela della pianta attraverso la diffusione delle pratiche di difesa integrata e si stanno mettendo a punto delle strategie integrate chimico-biologico per ridurre ulteriormente l’impatto dei fitofarmaci e la presenza di residui nel prodotto finale.