Un referendum non fa primavera
L'agricoltura biologica dopo il flop del referendum sul distretto biologico
Il dibattito è appena cominciato. Conta poco che domenica 26 settembre solo il 16 per cento dei trentini siano andati a votare e che il quorum non sia stato raggiunto. La questione è stata aperta, più che chiusa, da questo referendum perché anche chi l’ha criticato, l’ha fatto per ragioni di metodo, di efficienza dello strumento, ma certamente non per il nocciolo della questione. Perché, come dice anche un critico come il presidente della Società Frutticoltori Trento, Riccardo Forti, i contadini, di qualunque tipo, sarebbero ben felici di mollare la chimica. Andremo presto a verificare questa importante affermazione.
II risultato del referendum ha visto una partecipazione di meno del 16% dei Trentini, come giudica tale risultato un addetto al lavoro come lei, che è immerso tutti i giorni nel mercato della produzione, raccolta e commercializzazione della frutta?
Premetto che avevo già espresso tutti i miei dubbi sulla valenza di un simile referendum ai promotori che mi erano venuti a trovare - dopo aver già promosso la raccolta delle firme - esprimendo loro che la genericità della proposta era simile a quella di chi si occupa di promuovere referendum sulla pace nel mondo. Ma il referendum non si è posto il problema di far crescere la conoscenza del settore, molto complesso ed impegnativo: si è concentrato molto sulla raccolta delle firme, a cui è stato dato molto peso, ed ha minimizzato le conseguenze negative del mancato raggiungimento del quorum che in molti ritenevano quasi certo. Purtroppo il deludente risultato sarà un problema ulteriore per chi si occupa della produzione bio. I produttori vedono nella produzione bio una crescita che deve avvenire dal basso, con una diffusione dei principi culturali, e non una modalità imposta dall’alto. Spero che i Trentini si dimentichino preso del risultato negativo. Un buon indizio è la scarsa eco mediatica data ai risultati.
Come vede ora il futuro del bio in Trentino?
Le aziende che si occupano di produrre e vendere i prodotti bio devono essere ineluttabilmente realtà economiche che si sostengono e per ora non v’è certezza che il bio faccia business. Drogare il mercato spingendo produzioni non richieste, è quanto di più negativo si possa fare in economia; far crescere la domanda è l’unico modo per crescere assieme . L’epidemia da Covid ha evidenziato un arresto nel mercato bio con circa il 20% del prodotto passato all’industria dei succhi, ed ora la produzione bio si deve riprendere, puntando all’estero. Il magazzino di Aldeno, ad esempio, lavora il 70% del biologico per l’estero ed è poco influenzato dal mercato nazionale. Per riprendere si farà una gran fatica, in particolare valutando che la nostra realtà bio è basata su piccoli appezzamenti, assolutamente non paragonabili con le realtà produttive estere. Faccio l’esempio della Nuova Zelanda, dove i più piccoli produttori con i quali sono in contatto, lavorano da 900 ettari in su. E lavorare piccoli appezzamenti, è noto, ha spese di sistema molto più alte. Il biologico non fa eccezione.
L’agricoltura italiana è in profonda crisi ed il Trentino teme di finire in crisi anch’esso e non ha bisogno di colpi ferali ulteriori, ma di una sana alleanza tra bio e tradizionale volto all’unico obiettivo di stare sul mercato con prodotti sani e controllati e con una giusta remunerazione al produttore.
Ma come farete davanti all’accusa d’essere il secondo consumatore nazionale di pesticidi?
L’utilizzo dei pesticidi in Trentino appare molto elevato perché l’agricoltura trentina si sorregge principalmente sul settore della frutta, che quello che li utilizza in massima parte.
Quale critica rivolge allo strumento del referendum su queste materie?
Purtroppo i referendum tendono sempre a dividere tra buoni e cattivi, facendo schierare la gente tra il sì e il no. Ma bisogna capire che l’agricoltore convenzionale non è il cattivo, perché lui stesso è il primo esposto ai prodotti e se potesse farne a meno lo farebbe volentieri. (n.s.)