SEAC: svendere o cambiare?
Il declino di una società all’avanguardia e le strane contromisure
Il nostro servizio del numero scorso “Perdiamo anche SEAC?” ha creato grande trambusto nella società di software di via Solteri. La notizia di concrete ipotesi di vendita di quella che per trent’anni è stata la gallina dalle uova d’oro dell’Associazione Commercianti, non è sicuramente giunta gradita. Si è reagito in due maniere: da una parte dando vita ad una caccia all’uomo, o meglio al fantasma, che ci avrebbe passato notizie delicate e riservate (della serie: abbiamo un problema, teniamolo ben nascosto sotto il tappeto); dall’altra profondendosi in raffiche di affannose interviste sui vari media per definire “destituita di fondamento” una notizia che ci si sentiva in dovere di smentire a ripetizione. Seac, notoriamente riservatissima, negli ultimi dieci giorni è apparsa sui giornali più che negli ultimi dieci anni.
“Il problema è che il software di Seac da qualche anno non è proprio più all’altezza” - ci dice un operatore del settore. L’informatica, si sa, è in continua, rapida evoluzione, e al suo interno niente può stare fermo. Un software che non si rinnova non solo perde attrattività rispetto a quelli della concorrenza; ma perde anche funzionalità, incomincia ad interagire male con i nuovi sistemi operativi, con le altre applicazioni. Allora si rimedia mettendo un cerotto qui, una benda là, ma così si rinvia solo il problema: un organismo tutto incerottato funziona in maniera sempre più farraginosa. E allora i problemi si moltiplicano e i clienti, sempre più imbufaliti, si lamentano.
“Seac non ce la fa più a stare dietro agli stessi suoi prodotti” - è la conclusione lapidaria del nostro interlocutore. Che quindi giustifica la soluzione drastica – vendere finché si è in tempo – che il cda si affanna a smentire. Ma ne propone una versione più morbida: non più vendere la società (o meglio la sua sezione informatica, quella editoriale va a gonfie vele, anche se le apprezzate guide fiscali godono di notevoli sinergie con il relativo software), ma trasformarla, da azienda industriale ad azienda commerciale. Mettendosi a vendere non più i propri prodotti ormai superati, ma quelli di un qualche concorrente che va per la maggiore, in primis Zucchetti. E magari salvando la faccia, o cercando di salvarla, con i prodotti Zucchetti venduti, almeno per un certo periodo, con il marchio Seac.
Il nostro interlocutore – dicevamo - non è uno sprovveduto e non sta parlando a caso. In effetti la soluzione da lui ipotizzata avrebbe una serie di punti a proprio favore.
Zucchetti sarebbe molto probabilmente favorevole: acquisterebbe infatti quello che oggi è il vero patrimonio rimasto (oltre ai soldi in cassaforte dopo trent’anni di successi, ma quella è un’altra partita) alla società, ossia i clienti. Clienti che in genere sono associazioni – in primis Camere di Commercio – che spesso sono anche proprietarie della società con una piccola quota, e che quindi sono stati doppiamente fidelizzati; oppure studi di commercialisti, che da anni e anni lavorano con il software Seac, e più facilmente si staccherebbero dalla moglie. In maniera progressiva, senza dare nell’occhio, Zucchetti si sostituirebbe a Seac, e finirebbe con l’incamerarne tutta la clientela.
L’operazione sarebbe meglio gestibile anche dal cda di Seac, che come abbiamo visto ha problemi a far passare una più brutale vendita: verrebbe presentata come una collaborazione, una sinergia, e poi, con il tempo, fatta digerire come ormai inevitabile epilogo.
Chi ci rimetterebbero sarebbero i cento e passa tecnici del settore informatico: in un primo tempo sarebbero impegnati a gestire i passaggi da un programma all’altro, poi, a poco a poco, diverrebbero superflui. E il Trentino perderebbe molti posti di lavoro qualificati e il conseguente capitale sociale.
Le cause del declino
“Ma quale capitale sociale? – potrebbe chiedere qualcuno – Se non sono neanche capaci di aggiornare il loro software?”
La domanda in effetti è legittima, e rimanda al problema di fondo: come ha fatto una società leader in Italia a ridursi in questo stato? A diventare, come afferma con disincanto il nostro interlocutore, “un’attività industriale che ormai - guardiamo le cose in faccia - non è più capace di produrre prodotti accettabili”? Cosa è successo in via Solteri? Un’epidemia di Alzheimer infettivo ha forse bacato i cervelli di tecnici e ingegneri?
Vogliamo escludere questa risposta? Bene, ma allora, invece di pensare a dismissioni, al declassamento da produttore a rivenditore, forse si dovrebbero individuare le vere cause di questa deriva. E agire su di esse.
Per rispondere a questo interrogativo dobbiamo fare un passo indietro. E individuare il momento in cui Seac ha cominciato la parabola discendente. Che è conciso con il momento, di cui abbiamo parlato nel numero scorso, in cui il padre-padrone Franco Bolner ha abbandonato i comandi della produzione per dedicarsi alla finanza, gestire i milioni accumulati, entrare nel giro esclusivo dei finanzieri trentini. È sempre un momento delicato, in un’azienda, quello in cui il super-mega dirigente unico si defila; lo è stato in modo particolare per Seac, sistematicamente decapitata dei suoi uomini di spicco dallo stesso Bolner, che non voleva nessuno in giro a fargli ombra.
Poi la situazione è precipitata. Il presidente di Seac Gianni Bort – come abbiamo già raccontato – è alla fine riuscito a liberarsi dell’ingombrantissimo amministratore delegato Bolner, e con quella che assomigliava ad una congiura di palazzo lo ha sostituito con la segretaria dello stesso Bolner, Annamaria Nicolussi, che per anni ne aveva condiviso vita aziendale e segreti.
Ma Nicolussi non ha le qualità del suo ex-capo. E un difetto in più: il nepotismo. Imponeva infatti la propria sorella Gloria (un’altra segretaria) in un ruolo di vertice all’interno del management aziendale, con la facoltà di decidere ed indirizzare le scelte produttive. Grazie a quali qualifiche? Mah. Se infatti l’amministratrice delegata e direttrice generale Annamaria come titolo di studio può vantare la terza media, Gloria Nicolussi a capo dell’innovazione non ci risulta possedere (siamo pronti ad accettare eventuali smentite) titoli superiori. E le due Nicolussi non se ne stanno tranquille, non si affidano ad altri, vogliono decidere loro, comandare, imporsi.
I risultati sono stati conseguenti.
In una impresa normale, quando le cose non vanno, se ne chiede conto ai dirigenti. Alla Seac no: di fronte al malumore dei dipendenti e, quel che più conta, dei clienti, ci si è chiusi a riccio. Si è negata l’evidenza. Si è dato il via ad una caccia alle streghe, cioè ai denigratori annidati nell’Associazione Commercianti o nella stessa struttura. Si è licenziato un dirigente che aveva espresso per iscritto le proprie perplessità sull’andazzo della società.
Si è anche fatto una cosa intelligente: si è dato il via alle assunzioni di nuovi giovani tecnici, cosa presentata come confutazione delle voci di vendita. “Beh, si potrebbe dire che abbiamo assunto per alzare il prezzo dell’azienda” - ammette lo stesso Bort. E in ogni caso: che possono fare dei giovani neo-assunti dentro una struttura che latita nelle capacità dei massimi vertici?
Che sono ex-segretarie. E che risultano inamovibili.