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Il vertice di Taormina e il convitato di pietra

Dal G-7 praticamente nessun risultato e alcune prospettive poco incoraggianti

Si è concluso il vertice del G-7 di Taormina, e per giudizio quasi unanime degli osservatori i grandi della terra non sono approdati praticamente a nulla. In realtà come sappiamo, a questo vertice c’era un convitato di pietra, la Russia di Putin, esclusa da qualche anno per via delle sanzioni post-Ucraina. Per non parlare della Cina, che non ne ha mai fatto parte, benché essa sia oggi la prima manifattura industriale del mondo e il primo creditore del debito pubblico americano. Davvero il G-7 è ormai ridotto a poco più che un club ristretto, in cui il capo dell’Impero, il presidente americano di turno, viene a tenere consiglio con i suoi stati-vassalli e a dettare la linea. E, al di là della questione delle sanzioni per l’Ucraina, la vera ragione della esclusione della Russia sta proprio qui: la debole Russia di Eltsin dopo la fine dell’URSS era di fatto entrata in posizione subalterna nell’orbita americana; la orgogliosa Russia di Putin ha riacquistato appieno la sua autonomia di potenza planetaria, e nel club dell’Impero americano non poteva (né forse vorrebbe più) avere un posto a tavola.

Ma venendo ai grandi temi discussi (clima, terrorismo, migranti e commercio internazionale) si è visto come una qualche unità, a parole, si è raggiunta solo sul tema del terrorismo, con generiche formule di invito al coordinamento delle forze, a bonificare internet dalla propaganda jihadista, ecc. Il problema reale, connesso con l’individuazione e la lotta ai supporter occulti dell’ISIS, è stato ipocritamente eluso, anzi non è neppure entrato nell’agenda. Abilmente Trump, con la sua visita in Arabia Saudita di pochi giorni prima e la consacrazione di un fronte arabo sunnita anti-terrorismo (e anti-Iran), aveva messo le mani avanti. Come a dire: i paesi arabi sunniti, fortemente indiziati di collusione con l’ISIS in funzione anti-Iran, non possono essere toccati, sono alleati degli USA e perciò, ipso facto, anche degli altri paesi del G-7. Ciliegina sul tutto, con incredibile spudoratezza, Trump ha addirittura insinuato che l’Iran sarebbe il vero promotore del terrorismo nell’area… La ormai quasi secolare alleanza tra gli USA e la monarchia che regna nell’Arabia Saudita, nata già nel periodo tra le due guerre e fondata sugli affari connessi al petrolio – pilastro insieme al patto d’acciaio con Israele della politica americana nella regione - fa mettere il silenziatore su tutte le gravissime questioni connesse con il rispetto dei diritti nei paesi arabi del Golfo e sui fondati sospetti di collusione con il califfato di al-Baghdadi.

Si è osservato che al summit del G-7, diversamente da quelli precedenti dell’era Obama, troppi protagonisti non si conoscevano bene: non solo Trump ma anche Macron, Theresa May e Gentiloni sono di nomina piuttosto recente. In più l’incontro con il partner europeo più importante, la Germania della Merkel, è stato particolarmente ruvido: memore del trattamento al limite dello sgarbo diplomatico ricevuto negli USA, la cancelliera tedesca ha ribattuto colpo su colpo a un Trump che appare sicuro di sé e tronfio ma dopotutto, si saranno detti alcuni premiers europei, vede la sua sedia scricchiolare in patria per i postumi del Russia-gate. C’erano insomma tutte le premesse per un sonoro fallimento, ed anzi è dubbio che Trump mirasse ad altro che a ribadire la leadership degli USA e a imporre l’allineamento dei vassalli sulle questioni in agenda sopra citate. Le freddezze con la Merkel, le gomitate al leader del Montenegro per guadagnarsi la prima fila davanti ai fotografi, l’ostentato disinteresse per il discorso del padrone di casa, Gentiloni, sono tutti segnali inequivocabili di un approccio muscolare, sprezzante, da padrone del vapore che ascolta impaziente i suoi servi, piuttosto che da primus inter pares come almeno voleva apparire Obama in simili incontri al vertice.

Trump pretende dagli stati europei sic et simpliciter l’allineamento alle sue direttive. Ma ci sarà questo allineamento? Ecco, il punto è questo. Trump ha fatto la voce grossa sul clima, ma i paesi europei (Gran Bretagna esclusa) non pare lo possano seguire su questa strada. L’Europa non solo ha firmato il trattato di Parigi sul clima, ma vi ha dato coerente attuazione nella sua normativa; a maggior ragione tirerà dritto per la sua strada, ora che anche i giganti asiatici, India e Cina, si sono convertiti alla necessità di preservare l’ambiente.

Più complessa la questione del commercio internazionale e del famoso trattato di libero scambio (TTIP) che tante levate di scudi aveva suscitato al di qua e al di là dell’Atlantico, con gli europei timorosi di vedersi invasi da prodotti transgenici e gli americani di perdere ancora posti di lavoro per l’aumento delle importazioni dall’Europa. A questo proposito l’arrivo di Trump, fiero sostenitore del protezionismo e del “buy American”, ha tagliato la testa al toro. Il TTIP non si farà più; al massimo, ha detto Trump, se ne farà una edizione ridotta, con la sola Gran Bretagna di Theresa May, ansiosa di giustificare davanti al suo elettorato la convenienza dell’uscita dalla UE. Ma proprio qui si nasconde un’insidia per i paesi della Unione Europea. I quali al termine delle trattative manterranno certamente un trattamento commerciale preferenziale con la Gran Bretagna del dopo Brexit, rischiando però di vedersi invadere da prodotti americani che entrano da Oltremanica a seguito dei paventati accordi Trump-May. La vecchia teoria (di Charles De Gaulle) di una Gran Bretagna perenne cavallo di Troia degli USA, ne uscirebbe ancora una volta confermata…

E qui il gioco di Trump, un gioco di sponda con la Gran Bretagna di Theresa May, rivela ulteriormente, se mai ce ne fosse ancora bisogno, la ratio profonda della politica USA di lungo periodo, seguita dai presidenti americani senza eccezione, repubblicani o democratici, sin dalla nascita della UE: divide et impera, in concreto dividere gli stati europei e impedire la crescita dell’Unione fino al livello di uno stato federale unitario e potente, reale competitore degli USA su scala mondiale. In questo senso vanno comprese anche le mosse più recenti dell’amministrazione USA fino ai nostri giorni: il mantenimento ostinato delle sanzioni alla Russia di Putin, il caldeggiamento della Brexit da parte di Trump e la riesumazione dei “rapporti speciali” tra americani e britannici, la simpatia degli USA per i paesi UE dell’Est Europa che non ne vogliono sapere di accogliere immigrati. Tutte mosse calcolate a tavolino dai think tank della Casa Bianca che non a caso hanno causato polemiche e lacerazioni profonde all’interno della UE, impedendole di darsi una vera politica estera comune e bloccando quella che fino a qualche anno fa era la Ost-Politik, perseguita con crescente successo commerciale e finanziario della Germania e da altri paesi europei che andavano stringendo importanti e fruttuosi accordi con la Russia (per l’Italia, basti ricordare gli accordi di ENI e ENEL con Gasprom). L’avvicinamento, l’attrazione fatale tra la UE e la Russia andava bloccata a tutti i costi, e questa manovra a dire il vero era stata iniziata già da Obama, non da Trump, che ne è solo un ancor più convinto continuatore.

Quello che è in gioco è la leadership dell’Occidente, che gli USA vogliono tenersi ben stretta, se necessario facendo il muso duro con la Merkel e con Macron. La violenta reprimenda anti-tedesca, che tira in ballo il permanente surplus commerciale della Germania, sembra un altro argomento che Trump ha a bella posta messo sul tavolo, ben consapevole che proprio su questo da anni è in corso una polemica velenosa tra Germania e paesi UE del Mediterraneo. E c’è da scommettere che le destre “sovraniste” d’Europa, da Salvini alla Le Pen, ne trarranno ulteriore incoraggiamento per continuare a farne uno dei cavalli di battaglia della loro propaganda antieuropeista.

I leader europei, Macron e Merkel in testa, ora sono posti di fronte alla scelta, decisiva per l’Europa, se piegarsi ancora al diktat americano sulle varie questioni, Russia e clima in primo luogo, o iniziare davvero quello strappo del cordone ombelicale che lega l’Europa agli USA sin dalla fine della II guerra mondiale. Il che significherebbe in primis fare una politica mediterranea autonoma, che guardi agli interessi economici europei e non a quelli USA e del suo gendarme locale (Israele); significherebbe mettere gli stati arabi sunniti sospettati di appoggiare l’ISIS di fronte alle loro responsabilità, se necessario inaugurando una autonoma politica di sanzioni europea; significherebbe riprendere alla grande i rapporti politici e commerciali con la Russia di Putin, che ci riaprirebbe tra l’altro il ricco mercato dei consumatori russi, oggi sotto embargo; significherebbe continuare sulla politica del clima con chi ci sta, ossia con il resto del mondo Cina inclusa, isolando se necessario gli USA di Trump su questo tema delicato.

Se Merkel e Macron insistessero su questa politica nuova nei confronti dell’arrogante alleato americano, gli altri paesi della UE finirebbero prima o poi per allinearsi. Ma ce la faranno? Gli USA di fronte a una UE che voglia dotarsi di una politica estera autonoma, moltiplicherebbero i loro sforzi per sabotarne l’unità d’azione. E qui paesi indeboliti come l’Italia la Spagna o la Grecia, o per altre ragioni la Polonia e l’Ungheria, potrebbero essere gli anelli deboli di una Europa che voglia davvero pensare a marciare nel XXI secolo con le proprie gambe.