La “Via Crucis” di Othmar Winkler
“Ascolto la vita, scolpisco ciò che sento” Museo Diocesano Tridentino, fino al 14 novembre
Ecco finalmente esposta in un luogo aperto a tutti e di comodo accesso l’opera più famosa e meno conosciuta di Othmar Winkler, la “Via Crucis” realizzata per la chiesa delle suore di Maria Bambina di Trento, lavorando giorno e notte per 22 mesi, tra il 1951 e il 1952. La fama fu dovuta al fatto che le suore pensarono bene di far modificare, da un altro scultore, un particolare che a loro non garbava; ragion per cui Winkler si rivolse all’avvocato. Anche perché era stato pagato meno di quanto aveva chiesto.
La questione si protrasse per quarant’anni, fino al 1991, quando la superiora del tempo ammise, riparò i torti commessi e fece pace con l’autore.
Che cosa non accettarono le suore nel 1952? Non accettarono che l’artista avesse inserito la denuncia di quelli che a suo giudizio erano i mali della società contemporanea, nonché i simboli che rimandavano alla guerra e alla guerra fredda: il particolare rimosso dall’epilogo del percorso includeva una moneta e la falce e martello.
Giova ricordare che proprio in quello stesso anno avvenne un altro clamoroso episodio di censura nella città di Trento. Con un curioso e convergente scambio delle parti, mentre le suore si preoccupavano di fermare l’intrusione dei simboli del bolscevismo nell’arte sacra, il sindaco Nilo Piccoli si preoccupava della pubblica morale rigettando le “Naiadi nude” scolpite da Fozzer per la fontana di piazza Venezia (finirono a Bolzano dove tuttora si trovano).
In questo clima di arretratezza religiosa e culturale, che era della città di Trento ma rifletteva in pieno la linea dominante nella Chiesa romana di Pio XII, un artista come Winkler fu capace di anticipare di almeno un decennio aperture al mondo e libertà di espressione che la Chiesa farà in parte proprie solo col Concilio Vaticano II (1962-1965). Il mondo cattolico era comunque, va detto, già nei primi anni ‘50, tutt’altro che compatto su questi temi, basti rileggere il sincero apprezzamento di questa stessa Via Crucis da parte di un critico come Marcello Camilucci.
L’opera che abbiamo di fronte sprigiona un’energia e un’inventiva figurale e simbolica che, pur nel sostanziale rispetto della narrazione evangelica, propone una lettura della vicenda finale di Cristo intrecciandola con una visione drammatica della società contemporanea, in particolare attraverso il leit motiv del potere corruttivo del denaro e degli effetti perversi del progresso capitalistico, dello sfruttamento e della guerra in special modo. Qualcosa insomma che non solo si allontana decisamente dai modelli iconografici e dalle convenzioni stilistiche delle opere liturgiche tradizionali – funzionali a quella che Marcello Farina, nel presentare questa mostra, ha definito “una religione da sacrestia”; criteri per l’arte sacra del resto ribaditi dalla Chiesa ufficiale proprio in quegli stessi anni - ma che si pone anche in contrasto con l’ideologia delle “magnifiche sorti e progressive” del modello sociale e produttivo dominante.
Sul piano del linguaggio, questo ciclo viene giustamente considerato il suo capolavoro – non solo nell’ambito dell’arte “sacra”, nel quale fu prevalentemente impegnato per oltre un decennio e che, dopo questa vicenda, sarà costretto ad abbandonare per l’ostracismo della committenza. Winkler riesce qui a distribuire e orchestrare il flusso, a volte prorompente e quasi barocco delle immagini e dei riferimenti simbolici, talvolta in una sorta di horror vacui, creando una continuità di legami e di rimandi, con elementi come le mani ingigantite, il denaro, gli strumenti bellici, i simboli delle metropoli e del potere, usando inoltre largamente anche la parola scritta, le lettere (in italiano, non in latino: altra anticipazione) come elemento costitutivo dell’immagine, in una frenetica alternanza chiaroscurale. Inserisce, ancora, volti-maschera e deformazioni che testimoniano il suo legame profondo con la cultura figurativa tedesca antica e moderna, fin su agli espressionisti del primo ‘900.
In un saggio che è una delle letture più convincenti di quest’opera, pubblicato nel catalogo della mostra dedicata a Winkler nel 2006 dal Museo Diocesano di Trento, Timothy Verdon osserva che “questa sintesi personale e sofferta voleva esprimere la radicale presa di coscienza – la conversione morale oltre che politica – dell’artista sudtirolese” che, essendo stato in gioventù artista apprezzato nella Roma degli alti gerarchi fascisti, a partire dalla seconda metà degli anni ‘30 aveva traumaticamente capito la natura sanguinaria del regime nazi-fascista e aveva iniziato un processo di riflessione tradotto in opere contro l’orrore della guerra, nelle quali iniziano ad apparire quegli elementi linguistici - tra essi appunto l’uso simbolico delle mani - che vengono poi fusi e portati al loro più elevato livello di energia in questa “Via Crucis”.