Il sacro in Othmar Winkler
Come, in un artista non credente, la contemporaneità irrompe nel racconto evangelico. L'arte sacra di Winkler, che un tempo scandalizzava, riproposta oggi in una mostra al Museo Diocesano: che non lascia indifferenti.
Nell’arte sacra di Othmar Winkler non c’è abbandono a facili soluzioni consolatorie, e nemmeno una visione tutta intimista dell’esperienza religiosa. Le opere raccolte ed esposte al Museo Diocesano Tridentino fino al 10 settembre ("Fra cielo e terra: l’arte sacra lignea di Othmar Winkler, 1928-1957") ci raccontano una storia che produsse un netto segno di discontinuità nella routine della committenza religiosa, fino allo "scandalo" e al contrasto che nel 1952 opposero per molti anni l’autore della Via Crucis alle suore di Maria Bambina che gliela avevano commissionata. Quest’opera è oggi considerata in modo unanime il suo capolavoro, nell’ambito dei temi sacri. Come era accaduto anche a Manzù, che nel 1947 venne giudicato blasfemo per le sue crocifissioni, così anche Winkler ebbe il solo torto di arrivare in anticipo, di proporre con la sensibilità precorritrice che l’artista autentico possiede, inquietudini e domande che la Chiesa affronterà solo un decennio dopo, col Concilio Vaticano II. E il cui valore, all’epoca, solo pochi nel mondo cattolico seppero cogliere, come Marcello Camilucci.
L’iniziativa di oggi, organizzata dal Comune di Trento e dal Museo Diocesano, curata da Michele Anderle, Antonio Marchesi, Riccarda Turrina, con vari contributi qualificati incluso quello del figlio di Winkler, Ivo, curatore della sua opera, è cosa diversa da un omaggio riparatore che sarebbe a questo punto superfluo: è un’ambiziosa iniziativa di valorizzazione di un versante dell’opera di Winkler che necessitava di un’indagine organica.
Articolata in quattro ambiti tematici – la Via Crucis, la figura di Cristo, la figura di Maria, gli arredi liturgici – la mostra è accompagnata da due pubblicazioni: il catalogo che documenta con ampiezza un percorso di decenni con opere diffuse in tutta la regione (e anche oltre) e un libriccino scritto da Franco De Battaglia che si propone come guida alla scoperta e alla fruizione delle sue maggiori sculture sacre presenti sul territorio della città di Trento.
Perché il senso del sacro di Othmar Winkler non ci lascia indifferenti, anche se siamo lontani dalla pratica religiosa o dalla fede? Una prima ragione si può trovare nel fatto che, dopo la seconda guerra, nelle sue opere la contemporaneità irrompe dentro il racconto evangelico: il Gesù che cade sotto la croce viene schiacciato dalle bombe e si trova faccia a faccia con un volto dalla bocca cucita; in altra versione, a schiacciarlo sono i simboli di un capitalismo famelico. La mostra ci consente di capire che nel percorso di Winkler la guerra costituisce uno spartiacque, c’è un prima e un dopo: la Via Crucis di Lavis (1943), nella sua toccante, primitiva semplicità, è ancora in buona misura nell’alveo della tradizione, i traumi del conflitto ancora non si traducono in fratture espressive che sono in incubazione e matureranno di lì a poco. Noi spettatori percepiamo questi cambiamenti non come qualcosa di esteriore, una concessione a spinte esterne, ma come una evoluzione profondamente sentita, il prodotto dell’esperienza esistenziale dell’autore che si sente, a quel punto, testimone di una generazione.
Questa, che potremmo chiamare istanza di autenticità, è un fattore che vediamo agire anche nelle sue opere precedenti la guerra, nelle Madonne, nei Crocifissi. Winkler si misura con una storia millenaria dell’iconografia cristiana, lo vediamo indagare da dentro la tradizione romanica, soprattutto gotica e rinascimentale, ma non abbiamo la sensazione di un atteggiamento da epigono, ma di colui che voglia penetrare lo spirito di una cultura e aggiungervi qualcosa di suo. Insomma, anche nell’epoca in cui non riformula i contenuti narrativi e simbolici del racconto religioso, è un artista credibile, capace di coniugare il senso della storia con la sua forte istanza etica e la sua tensione esistenziale.
Non dimentichiamo che il giovane Winkler fu un talento che si lasciò inizialmente corteggiare dai gerarchi fascisti, di cui fu ritrattista – lavori che a un certo punto gettò dalla finestra – e che più tardi, nel 1938 a Berlino, fu testimone della terribile "Notte dei Cristalli" contro gli ebrei: esperienze che, sommate alla tragedia della guerra, finiranno per accumulare in lui la necessità di tradurre nel linguaggio della sua arte un richiamo forte, dirompente, al senso di umanità e di giustizia. Ma non c’è, lo vediamo, il peso di un intervento ideologico; così come non c’è la pura gratificazione dell’eleganza formale: c’è invenzione narrativa e simbolica, nell’irruente linguaggio che deforma e sovverte le proporzioni e mette spesso al centro dell’opera la "verità" delle mani.