Battisti contro le camorre comunali
Le denunce di un potere corrotto, la lotta per scuotere un Trentino timoroso e rassegnato. La coraggiosa attività pubblicista di Battisti, pagata a duro prezzo.
Sono molteplici, interessanti e talora non convenzionali le celebrazioni per il centenario della morte di Cesare Battisti. Noi qui, dell’uomo e del politico, vogliamo presentare un tratto particolare: quello del giornalista. Giornalista d’assalto diremmo oggi, e sarebbe un termine riduttivo. Battisti, con le sue denunce, voleva smuovere un Trentino succube delle malversazioni di un potere diffuso, far uscire la popolazione da uno stato di timore e rassegnata passività. Inquadrava quindi la singola denuncia all’interno di una visione politica e sociale generale.
Finì anche in carcere per questo. Per poter editare il suo giornale si indebitò pesantemente, arrivando alla povertà assoluta, lui e la sua famiglia; senza trovare alcun sostegno in quella stessa borghesia che poi, alla fine della guerra, lo avrebbe osannato come Martire.
Riteniamo che oggi, in tempi forse meno aspri, sia comunque utile ed istruttivo ripercorrere quelle vicende, di cui, anche nei dettagli, troviamo riscontri nelle cronache attuali, come riportiamo in altre pagine di questo numero.
Il 18 settembre 1904 Cesare Battisti, da poco scarcerato dopo tre mesi di carcere a Trento, fu in gita di propaganda a Marco, il piccolo paese a sud di Rovereto che era allora comune a sé. Il corteo di socialisti e simpatizzanti fu accolto da una folla festante, raccontò in cronaca il suo giornale: “Non si era ancora giunti in paese quando la comitiva in cui era il dr. Battisti s’imbatté nel capocomune e nei rappresentanti del municipio i quali si erano fatti in dovere di venire ad incontrare il pericoloso malfattore testé uscito dai freschi delle carceri giudiziarie. Nel paese non erano più gli archi trionfali allestiti il giorno prima, perché l’autorità li aveva fatti togliere in ossequio alla legge (…). Ma anche senza archi, dalla folla che si addensava lungo la via, dall’espressione significativa di tanti visi lieti, si poteva constatare che ieri per tutta Marco – fatte pochissime eccezioni – era giorno di giubilo e di festa. (…) La facciata dell’osteria Cobbe – il luogo destinato alla conferenza – era tutta ornata di frasche e di fogliame. Vi spiccavano due grandi cartelli in uno dei quali era scritto «Vieni o galantuomo / scopator delle camorre comunali»“.
La vicenda che così trionfalmente si concludeva era ormai lunga. Nel paese si era creato, negli anni di fine secolo, un vero e proprio groviglio di poteri. Alla testa dell’amministrazione comunale c’era uno dei tre principali proprietari delle campagne di Marco, il roveretano Gabriele de Lindegg. Nel 1897 si era costituita una Cassa Rurale, per impulso del curato don Giacomo Regensburger, già allora uno degli uomini più attivi della cooperazione di ispirazione cattolica, nella quale avrebbe ricoperto in seguito le massime cariche. L’uomo doveva avere qualità non comuni, ma il suo operato a Marco risulta tutt’altro che avveduto. Della Cassa assunse di persona il ruolo di direttore, come avveniva frequentemente nel Trentino di quegli anni, mentre alla testa del collegio di sorveglianza fu nominato il Capo comune Lindegg. Proprio a lui, che aveva il compito di sorvegliare il corretto funzionamento della Cassa, furono concessi dal direttore-curato prestiti di entità anomala, sia rispetto alle dimensioni finanziarie del piccolo istituto di credito, sia alle regole stabilite per i prestiti ai soci. Ne scaturirono problemi di liquidità e un’inquietudine diffusa. Nel corposo faldone conservato presso la Federazione trentina della Cooperazione se ne trovano numerose tracce, come questa supplica formulata in un italiano popolare molto efficace: “L’aministrazione della nostra Cassa non va a base dello statuto ma tira avanti aforza di abusi. Ben 80 soci firmavano una regolare corenda perché fosse convocata la semblea generale onde avere shciarimenti riguardo al oscura aministrazione e non ebero risposta. Per carità invociamo l’intervento della Federazione”.
Sul versante del Comune le cose andavano anche peggio. Una parte del consiglio comunale cominciò a denunciare i comportamenti da autocrate del Lindegg e seri disordini nell’amministrazione finanziaria, ingaggiando uno scontro aperto cui diede risonanza locale uno dei due giornali roveretani, il poco diffuso “Corriere del Leno”, mentre il più autorevole “Raccoglitore” era schierato senza pudori dalla parte del signorotto sotto accusa.
È a questo punto che entrò in campo Cesare Battisti, che assunse il conflitto locale a esempio di una questione di rilevanza generale e strategica.
Da anni i socialisti trentini erano impegnati in una serrata campagna di stampa sulla situazione di Levico, dove il podestà Ognibeni era accusato di spregiudicate appropriazioni di beni pubblici e di comportamenti amministrativi scorretti e dannosi. Gli articoli dell’”Avvenire del Lavoratore” e poi del “Popolo” avevano contribuito in maniera determinante a mettere sotto gli occhi di tutti non solo quel caso specifico, ma il problema dell’assenza di controlli istituzionali e di requisiti democratici, essendo gli organi comunali eletti sulla base di leggi antiquate e classiste.
Il caso di Marco offrì a Battisti l’occasione di rilanciare la battaglia, che si inseriva in una visione politica organica che connetteva suffragio universale, risanamento delle amministrazioni locali, autonomia trentina dal Land tirolese, riforma federalista dello stato austriaco. La moralizzazione della vita pubblica non era ai suoi occhi un obiettivo isolato e astratto, ma si connetteva con un articolato programma di trasformazione del paese, radicalmente diverso dal declamatorio irredentismo che nell’immaginario più diffuso ancora gli si attribuisce.
Ma restiamo alla nostra vicenda. Il linguaggio con cui “Il Popolo” la affrontò era quello della sfida aperta, con l’evidente obiettivo di costringere Lindegg a un confronto giudiziario cui l’Ognibeni di Levico era sempre sfuggito. “Insistiamo nel dirvi: truffatore, difendetevi, difendetevi se potete! Querelateci. Noi saremo pronti a dar prova davanti ai giudici delle truffe da voi commesse colla complicità del vostro fido amico Don Regensburger”, si legge sul giornale socialista del 24 aprile 1902. C’era una fiducia sorprendente nei confronti dei tribunali austriaci, nel patriota Battisti di quella fase, e una fiducia ancora più grande nella evidenza delle cause abbracciate. In molti casi questa convinzione, che si traduceva in una strategia giornalistica franca fino all’imprudenza, favorì il suo successo. Non fu questo il caso della causa intentatagli da Lindegg: il tribunale di Trento lo condannò “a tre mesi di arresto semplice inasprito da un digiuno”. Il Presidente Kurzel aveva anticipato chiaramente nel corso del dibattimento quale fosse il crimine nel quale Battisti era incorso.
La cattiva amministrazione di Lindegg si poteva considerare dimostrata, nemmeno i suoi avvocati la negavano, ma questo non bastava a farne un ladro e un truffatore come aveva asserito il direttore del “Popolo”.
Una revisione di bilancio tardivamente disposta dall’autorità provinciale di Innsbruck accertò in seguito magagne amministrative ulteriori. Ma il tentativo di Piscel, avvocato e compagno di battaglie di Battisti, di ottenere la “riassunzione” del processo non ebbe esito. Per lui si aprì dunque, nel maggio 1904, la porta del carcere, dal quale uscì nell’agosto con un prestigio ulteriormente accresciuto, come attestano i molti
messaggi di solidarietà e stima che gli pervennero in quei giorni e che sono conservati nel suo archivio.
Una vita fra sequestri e processi
“Il processo che lunedì si svolgerà contro il Dr. Battisti a Feldkirch sarà il sesto, ch’egli sostiene dinanzi ai giurati; ma segna una cifra oltre il centinaio (fino ai cento li abbiamo contati) se vogliamo ricordare tutti quelli sostenuti, per contravvenzioni di stampa o per questioni politiche, dinanzi al giudice, al tribunale od alla polizia. E se i giurati per ben quattro volte assolsero, essendo finito con condanna solo il processo Lindegg, altre tredici o quattordici furono le condanne pronunciate dal giudice. Giornate di carcere e centinaia di fiorini di multa”.
A fornire questo quadro, sul “Popolo” del 2 dicembre 1907, è la moglie Ernesta Bittanti, in un amoroso ritratto politico e morale del compagno, scritto approfittando della sua assenza per partecipare al dibattimento che si svolgeva nella città del Vorarlberg. “Quell’anima rude è capace di rimproverarci al ritorno”, mette le mani avanti il temporaneo sostituto nel ruolo di direttore, Antonio Piscel. Le cifre sono ridefinite nel dettaglio dalla figlia Livia Battisti, che allega un elenco di 64 procedimenti giudiziari e polizieschi in appendice al volumetto “Cesare Battisti. Processi e autodifese”, da lei edito nel 1971, quando la repressione successiva al biennio ‘68-’69 stava moltiplicando a Trento e altrove i processi politici.
Una ricostruzione analitica della vicenda Lindegg-Battisti si può leggere nel nostro “Marco 1850-1945. Documenti per la storia del paese” (Rovereto, 2015). Ancora da studiare, per molti aspetti, è l’offensiva quotidiana mossa al giornalismo trentino tutto, ma in particolare al quotidiano di Battisti, dalla censura giudiziaria, che sequestrava singoli articoli imponendo di fatto di ristampare l’intera tiratura, sulla base di una concezione straordinariamente restrittiva della legislazione esistente, a sua volta contrastata nel Parlamento di Vienna con impegno dal gruppo socialista e in particolare dall’autorevole deputato Wilhelm Ellenbogen.
Del resto tutta la storia del giornalismo trentino di quegli anni, ricca di elementi di interesse, reclama nuovi e più sistematici studi.
Dall’autodifesa di Battisti nel processo Lindegg
“Se combattei il Lindegg si fu non per abbattere una persona ma un sistema. Si rasentò mille volte il codice penale sfuggendovi sempre. Si fosse trattato d’un subalterno, d’un impiegato qualsiasi che tali cose avesse commesso, egli indubbiamente dormirebbe a quest’ora in prigione. Ed io volli da quella piaga guarire il comune di Marco.
Disse l’avvocato dell’accusa che non si uccide solo col coltello ma altresì coi colpi di spillo della diffamazione; ed io rispondo che non si ruba solo scassinando le serrature, ma anche falsando le piccole cifre e fraudando le piccole somme. Il giornalismo è ferro chirurgico che ferisce ma che risana. Vincemmo altre battaglie; ed anche allora avevamo detto “truffa” alla truffa, “furto” al furto! Giudicatemi pure, signori giurati, e mi chinerò riverente al vostro verdetto. Se mi assolverete ripiglierò tosto ringagliardito il mio posto di combattimento; se al contrario mi condannerete e assolverete con ciò le amministrazioni alla “Lindegg”, uscendo, magari fra 12 mesi, dal carcere, riprenderò lo stesso giorno la penna ricominciando con egual fede ed ardore la mia battaglia per la redenzione della nostra vita comunale. Ed ora giudicatemi!”.
(“Il Popolo”, supplemento, 11 dicembre 1902)